Aleksandr Blok – Poesie

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Nessun poeta, dopo Puskin, ha avuto una influenza sulla poesia russa paragonabile a quella di Aleksandr Blok, nato a Pietroburgo nel 1880 e dunque appartenente alla generazione di pochi anni precedente a quella dei Majakovskij, Esenin, Pasternak. Talento vivissimo, pubblicò a ventiquattro anni una delle sue opere fondamentali, quei “Versi della Bellissima Dama” che lo rivelarono immediatamente come il caposcuola della poesia simbolista. Ma la poesia di Blok raggiunse il culmine della sua intensità lirica nelle opere di poco successive, quando, come scrive Bruno Carnevali nella prefazione al nostro volume, “la Bellissima Dama, l’ipostasi femminile della divinità, che nel metafisico e immobile disegno simbolista doveva essere la metafora dell’ineffabile incontro con la realtà più reale, d’improvviso si vanifica, si rifiuta all’amante, e la Bellissima si fa Sconosciuta”, volgendo così il tema metafisico in una più amara esperienza esistenziale. Vicino agli anarchici mistici al tempo della rivolta del 1905, la rivoluzione bolscevica fu da lui salutata come la rinascita dell’anima russa, e gli dettò il più famoso dei suoi poemi, “I dodici”, raffigurante un drappello di soldati che presidiano le strade di Pietroburgo nell’inverno della rivoluzione. L’epica amara di questo straordinario poema chiude anche simbolicamente la parabola creativa del grande scrittore russo, che si spense soltanto tre anni più tardi, nel 1921.

Osip Mandel’stam – Il rumore del tempo e altri scritti

Le prose narrative di Mandel’stam sono uno fra gli esempi più alti di quella prosa assoluta che ha contrassegnato la letteratura novecentesca. Mandel’stam procede per associazioni e divaricazioni fulminee, non meno audaci di quelle che si incontrano nella sua poesia. Così affiorano schegge di memoria e di visioni: una infanzia e giovinezza pietroburghesi di fine secolo, il clima (anche sonoro) di quegli ultimi anni prima della Rivoluzione, paesaggi abbaglianti, ritratti incisi su pietre dure.

Osip Mandel’stam – Ottanta poesie

A poco più di dieci anni dalla scelta delle “Cinquanta poesie” di Mandel’stam uscita in questa stessa collana (1998), Remo Faccani propone ora un’edizione aggiornata di quel libro, accresciuta di trenta testi, che si giova anche del lavoro filologico condotto nel frattempo dai migliori studiosi russi. Ne risulta un’immagine più completa dell’autore, che tiene maggiormente conto delle poesie degli anni Trenta, quando Mandel’stam visse un’ultima stagione di grande ispirazione ed energia creativa, a dispetto della crescente ostilità del potere politico e della cultura ufficiale sovietica. Le traduzioni di Faccani si caratterizzano per l’impegno di restituire il più possibile integralmente le stratificazioni di senso tipiche di Manderstam: e dunque grande attenzione viene data alla trasposizione metrica in versi derivati dalla tradizione italiana e al tessuto sonoro dei testi, ma il largo ricorso a rime e assonanze non va a scapito di una resa semantica molto vicina all’originale. Operazione difficile ma assolutamente necessaria, perché il personale rapporto di Mandel’stam con il vuoto e con la morte passava anche, o soprattutto, attraverso la più precisa architettura del verso, unica speranza di dare una forma definita e resistente all’effimero respiro della vita.

Marina Cvetaeva – Le notti fiorentine

Le notti fiorentine di [Cvetaeva Marina]

“Mosca, febbraio 1921. Un infreddolito e annoiato Brjusov presentava una serata di poetesse; tra loro era anche Marina Cvetaeva: “Donna. Amore. Passione. Da che tempo è tempo la donna ha saputo cantare soltanto l’amore e la passione. L’unica passione della donna è l’amore. Ogni amore della donna è passione. Fuori dell’amore la donna, in arte, è nulla. Provate a togliere alla donna la passione…” Non proviamoci, con Marina Cvetaeva. Le dilatazioni e contrazioni dell’elemento erotico-poetico (diastole di tenero abbandono e slancio, sistole di rinuncia e anatema) segnano il ritmo segreto dei suoi versi; privata dell’amore, la sua opera — lirica, narrativa, saggistica, epistolare — perde motivi e conflitti cruciali, i cardini stessi di una visione-versione del mondo fra le più tragiche del Novecento. ”

Eduard Bagrickij – L’ultima notte

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« Bagrickij, il “François Villon di Odessa”, come Babel’ lo chiamò, non fu dominato dall’ansia escatologica d’un Majakovskij, e la sua esperienza della rivoluzione sfuggì a quella dialettica tragica che a Majakovskij aprì una sfera intatta e sovrana della poesia. Abita­tore del presente, delle sue inquietudini e dei suoi entusiasmi, Ba­grickij è posseduto da un sentimento tumultuoso della vitalità na­turale e storica, da una furia gagliarda di esperienza e di azione. E accanto alle tinte trionfanti e scatenate si profilano le turbate om­bre d’una tensione di destino che sa comporsi nella salutevole ac­cettazione d’una concreta misura umana ».

Andrej Platonov – Ricerca di una terra felice

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L’avvenimento di questi ultimi tempi è stato, nell’Unione Sovietica, la pubblicazione postuma, su una rivista edita a Alma-Ata, del romanzo di Andrej Platonov Džan, in cui un critico ha ravvisato l’impianto di un «mistero» medievale. L’interesse vivo per un’opera così imprevista, per tanti anni rimasta sconosciuta, si giustifica anche perché Džan contribuisce a mettere in luce un altro rilevante scrittore troppo a lungo rimasto nell’ombra. Tuttavia, anche se solo in parte conosciuto, Platonov riscosse ammirazione in lettori come Hemingway, Lukàcs e Gor’kij. Džan è la storia di una disperata marcia attraverso il deserto asiatico: il piccolo popolo džan viene condotto a salvezza, strappato al malefizio della sua vegetale e semispenta esistenza. Čagataev, il salvatore, prima ancora di procacciare ristoro e riparo a quel pugno di dannati del mondo, compie il vero miracolo d’infondere nell’anima loro la volontà di vivere. Perché Džan è un popolo che vuole perire, avendo esaurito ogni potenza vitale. Dopo tutte le prove cui sottostà, dopo la costante esperienza della morte, dopo la lotta con le forze opache e aride del deserto, Čagataev, mitico e umanissimo eroe, ha la certezza della vittoria quando gli uomini del piccolo popolo si sottraggono alla sua tutela: essi non vogliono vivere nella comunità organizzata da Čagataev e se ne vanno per il vasto mondo, a cercare, oltre l’orizzonte, la felicità. La parabola conchiude qui la sua biblica spaziosità di simbolo, su questa prospettiva di libertà e di avvenire. L’immensità dello spazio e l’infinità del tempo, la resistenza della natura e l’azione dell’uomo, l’imperio della coscienza e l’indipendenza del cuore, l’angoscia dell’anima e l’impulso a superare le distanze tra gli esseri, il senso di necessità dell’amore e quello di ineluttabilità della morte, sono, in Platonov, i raggi di un pensiero poetico che ha il suo centro di luce in un’affermazione intensa e fervente di infinito sviluppo vitale. Vittorio Strada

Maksim Gor’kij – Var’enka Olesova

Veren'ka Olesova (Sírin Classica) di [Maksim Gor'kij]

“C’è un criterio a mio parere infallibile per saggiare la verità (“autenticità”) del personaggio (ma è ciò poi cosa diversa dalla verità-“autenticità” della narrazione?): e cioè, se il personaggio – quali che siano le virtù di cui si adorna l’identità fittizia che gli è prestata – “ci riesce antipatico”, se ci sentiamo a disagio in sua compagnia o addirittura non lo sopportiamo, ciò non può essere che a causa del fatto che il personaggio è “sbagliato” perché irreale… Resta però che dovremmo comunque in qualche modo chiederci – ed è questione del massimo momento – se Varen’ka Olesova – lei (il Personaggio) ci piace o non ci piace, se stiamo volentieri in sua compagnia o a seguirne le ‘peste’, se ce ne sentiamo (l’abbiamo detto!) “intrigati”… Quanto a me, conosco la risposta. Sia detto fra noi, mi sono anche, temo, un poco innamorato…” (dalla postfazione di Daniele Morante)

Andrej Platonov – Cevengur

Cevengur (Letture Einaudi Vol. 60) di [Platonov, Andrej]

Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta. *** Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall ‘intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell’ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell’Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l’imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l’esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l’assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali? Dalla prefazione di Ornella Discacciati