La Kolyma è una desolata regione di paludi e ghiacci all’estremo limite nordorientale della Siberia. L’estate dura poco più di un mese; il resto è inverno, caligine, gelo fino a sessanta sotto zero. Laggiù, dalla fine degli anni Venti, alcuni milioni di persone vennero deportate per volontà di Stalin e sfruttate, in condizioni ambientali disumane, a fini produttivi: scavi nei giacimenti d’oro, costruzione di strade, disboscamenti e raccolta di legname… Šalamov arrivò in quel «crematorio bianco» nel 1937, e vi rimase fino al 1953. Nel 1954, subito dopo il ritorno a Mosca, cominciò a scrivere questi racconti, ovvero a «vivere non per raccontare ma per ricordare». L’arrivo sull’«isola Kolyma», la casistica dei vari tipi di carcerieri, i luoghi e le condizioni del lavoro forzato, la natura ostile e così carica di significati simbolici sono le linee portanti di una creazione poetica che è anche analisi di uno spietato fenomeno antropologico: «con quale facilità l’uomo si dimentica di essere un uomo» e, se posto in condizioni estreme, rinuncia alla sottile pellicola della civiltà.
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Varlam Salamov – I racconti di Kolyma. Volume II
Dalla fine degli anni Venti al dopoguerra milioni di persone vennero deportate e morirono nei lager staliniani, e alla Kolyma, regione desolata di tundra e ghiacci dove «uno sputo gela in aria prima di toccare terra», Šalamov rimase confinato dal 1937 al 1953. L’anno successivo, subito dopo il ritorno a Mosca, tassello dopo tassello Šalamov cominciò a comporre il suo monumentale mosaico contro l’oblio, il suo poema dantesco sulla vita e sulla morte, sulla forza del male e del tempo.
Alexander Fadeev – La disfatta
Nel bilancio della letteratura nata dalla Rivoluzione d’ottobre, La disfatta., il romanzo che nel 1927 rivelò il giovane Fadeev, si è conquistato un posto sicuro. Un libro dal serrato piglio documentario, vissuto intensamente dal suo autore prima ancora di essere steso sulla pagina. A diciottenni, Fadeev si era arruolato tra i partigiani impegnati contro le armate giapponesi e i cosacchi del dittatore controrivoluzionario Kolčak. Queste pagine ci parlano appunto della drammatica esperienza: il piccolo distaccamento dei guerriglieri è circondato dai « bianchi » e dai giapponesi, per spezzare l’accerchiamento e mettersi in salvo deve affrontare una serie di combattimenti disperati. In un susseguirsi di cavalcate, salvataggi, battaglie, la movimentata vicenda prende il sapore di un poema cavalleresco. Ma non si tratta soltanto di un libro d’azione che affida le sue risorse al ritmo del racconto: a differenza di molti altri romanzieri della guerra civile, interessano a Fadeev i problemi umani dei suoi personaggi, dettagliati con finezza psicologica (qui lo scrittore guarda a Tolstoj, suo maestro di metodo letterario ) : il rozzo Morozka, sorretto nelle prove più difficili da una sua elementare moralità; il giovane studente di città Mečik, che non riesce a «legare » coi compagni; Levinson, il comandante che presta il suo volto alla parte migliore della nuova generazione rivoluzionaria. Una scarna epopea, che senz’ombra di retorica evoca la faticosa formazione di una libertà, di una morale, di una umanità nuova nel crogiuolo della lotta.
Boris Pilniak – L’anno nudo
Pilniak è una delle figure più importanti e produttive della letteratura russa contemporanea. Nella sua opera, in cui una lettura attuale trova precorrimenti interessantissimi delle nuove tecniche narrative, la tematica è data dalla Russia dei primissimi anni della rivoluzione e della Nep; egli ne dà una radiografia di tale messa a fuoco da consentire scoperte e rivelazioni essenziali. È la realtà provinciale, immota da secoli, dove la vita conserva ancora i costumi e il ritmo del XVII secolo, che egli porta in questo libro, nel momento in cui viene sconvolta dagli eventi della rivoluzione. Troviamo nobili decaduti ed ora spodestati ed espropriati, folli e mistici pellegrini, mercanti di vecchio stampo e la muraglia indifferente e ottusa della borghesia minuta; anziché descritto, quest’ambiente umano storicamente reale è reso nello scompiglio in cui lo gettano quei drappelli di bolscevichi inviati dalla rivoluzione a trascinarlo nella storia moderna. Pilniak utilizza una pluralità di piani del tessuto narrativo, piegando i mezzi espressivi a uno sperimentalismo, ricorrendo a procedimenti intesi a registrare gli stati d’animo nei loro più inavvertibili spostamenti. L’anno nudo, del 1922, è la sua opera più caratteristica in questo senso, ed è un’indagine della Russia immersa nel gran crogiuolo, quale nessun altro scrittore ci ha dato così al vivo. La critica sovietica vide in lui un populista, un nazionalista slavofilo, un formalista; e in seguito la sua attività fu paralizzata. Egli resta però, come pur lo considerava Voronskij — il maggior critico marxista dell’epoca — lo scrittore più vero e provocante degli anni rivoluzionari, quello in cui si affaccia il discorso più intenso e articolato su di essi, il discorso artistico-intellettuale più significativo.
Konstantin Fedin – Le città e gli anni
Goroda i gody (Le Città e gli Anni) è giustamente considerato il primo effettivo romanzo sovietico: fu Konstantin Fedin (1892-1977) nel 1924 a compiere il tentativo di narrare, sia pure attraverso una vicenda esasperatamente privata, il corale politico della rivoluzione. Un tentativo che, ovviamente, non poteva evitare proprio per la sua ambizione, la sua novità, la sua portata, critiche e accuse, ma che, sempre per la sua ambizione, la sua novità, la sua portata, merita ancora oggi il massimo riconoscimento attribuibile a un romanzo: la gratitudine per averci dato insieme con il senso della vita almeno un’intuizione Storica. Ancora oggi il capolavoro di Konstantin Fedin offre al lettore il privilegio di vivere come possibili dati e date che non si rassegnano all’archiviazione. all’oblio, alla distrazione del nozionismo.
Vladimir Chodasevic – Necropoli
Questo libro, di cui presentiamo la prima traduzione al mondo, si apre sugli anni del primo Novecento russo. Era il momento di una equivoca ed esaltante mescolanza fra arte e vita: «Tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano. Questo era l’unico, il fondamentale dogma. Si poteva esaltare Dio come il Diavolo. Si poteva essere posseduti da qualsiasi cosa, entità: l’importante era la pienezza della possessione». Tutto andava offerto sull’altare delle emozioni. «Cogliamo gli attimi distruggendoli» disse Brjusov, gran sacerdote del simbolismo. C’era la posa teatrale e c’era il colpo di pistola. «“Perdo succo di mirtillo!” gridava il pagliaccio di Blok. Ma il succo di mirtillo talvolta si rivelò sangue vero».
Chodasevic era allora un giovane poeta, dal segno elegante, dall’aria morbosa, dall’intelligenza acutissima. Oggi sappiamo che era un astro nella costellazione dei grandi poeti russi malmenati dalla storia, accanto alla Achmatova, a Mandel’štam, alla Cvetaeva, a Pasternak, anche se la sua opera solo ora comincia a essere scoperta. «Nell’aria afosa, come prima dei temporali, di quegli anni», troppo colmi di presagi (il suo amico Muni ne era così ossessionato che arrivò a dichiarare: «I presagi sono aboliti»), Chodasevic visse la nascita caotica della letteratura moderna in Russia. Si conoscevano tutti, percepivano miserie e incanti gli uni degli altri, avevano passioni per le stesse donne, litigavano, bevevano, perdevano al gioco. Poi venne la guerra, venne la rivoluzione, ai poeti cominciarono ad accompagnarsi i delatori. Pietroburgo appariva come «una città morta, sinistra». Nel 1922 Chodasevic riuscì ad abbandonare la Russia, non senza aver esortato i suoi amici nelle «ultime ore prima della separazione» a concordare i segnali «da scambiarsi nella tenebra che incombe». Da allora sino alla morte si può dire che non abbia assistito che all’estendersi, intorno a lui, di una sterminata «necropoli». Morivano uno dopo l’altro, suicidi, o assassinati o ridotti al silenzio. E uno dopo l’altro sfilano in questo libro: da Brjusov a Blok, da Esenin a Sologub, da Belyj a Gor’kij. Chodasevic non riesce a parlare di questi scrittori senza darci anche un giudizio penetrante sulla loro opera, ma non riesce a parlare della loro opera senza evocare la loro presenza, il loro gesto, spesso il loro convivere con le più ingombranti contraddizioni. Erano tutti personaggi di un immenso «romanzo russo», e come tali qui ci appaiono. Oscillavano tutti fra estremi, e riuscivano talvolta a mascherarne la natura. Come per Sologub, di ciascuno era difficile dire «da dove è partito e dove è arrivato, se dal sacrilegio alla preghiera o viceversa, dalla benedizione alla maledizione o viceversa». Crudele e commosso, questo libro è un salvataggio nella memoria dell’ultima grande letteratura russa, operato da uno dei suoi protagonisti, prima che la «necropoli» inghiottisse anche lui. Come scrisse lo stesso Chodasevic: «In un certo senso la storia della letteratura russa potrebbe essere definita la storia della distruzione degli scrittori russi».
Ivan Bunin – Opere: Campagna, Valsecca, Una bella vita, L’amore di Mitia, Racconti
Raccolta di opere dello scrittore russo premio Nobel per la letteratura
Maksim Gor’kij – Storia di un uomo inutile
Maksim Gor’kij – La madre
L’evoluzione della protagonista, da donna succube delle violenze di un marito ubriacone a donna emancipata, fiera del figlio, combattente di primo piano per la difesa dei diritti degli sfruttati, emerge con un crescendo lungo le pagine del romanzo. Così come emerge l’interessante intreccio con la figura di Cristo, non considerato come Dio, ma come predicatore della giustizia e dell’amore per il prossimo. “Ama lituo prossimo come te stesso”. “Verranno i giorni felici” – dice la madre diventata una attivista clandestina dei lavoratori in lotta contro le prepotenze dei padroni e dello Stato che li difende – “ci sono nemici cattivi, avidi, falsi che ci tengono prigionieri, ci legano, ci schiacciano. Contro tutto questo combattono l nostri figli, per amore di tutti, per amore della verità di Cristo.”