«Secondo Solenicyn il campo di prigionia è l’inferno. Io invece penso che l’inferno siamo noi». Questi «appunti di un sorvegliante» giocano su due piani, come a mostrare, nella comparazione tra «mondo di dentro» e «mondo di fuori» il carattere inestricabilmente paradossale, intrinsecamente comico del mondo. Il piano autobiografico dei ricordi dalla prigionia per criminali comuni dove Dovlatov andò a fare la guardia militare dopo la sua espulsione dall’università; e il piano della invenzione, nelle lettere che finge di scrivere agli editori dell’esilio di New York, e in cui racconta delle traversie nel tentativo di farsi pubblicare i racconti di Regime speciale, della sua gioventù sovietica e della sua vita in esilio. Come un contrappunto, un controcanto, o forse meglio, come un’eco ripetuta tra vita di liberi e vita di prigionieri, allo schizzo, al personaggio, all’episodio del campo di prigionia, si alterna lo schizzo, il personaggio, l’episodio dalla vita quotidiana. Sicché Regime speciale non è un racconto di prigionia. Il soggetto è l’incanto, come nelle altre prove del grande umorista russo, divertito e triste, familiare e stupito di fronte all’umanità, umanità di dentro e umanità di fuori: come un assassino efferato possa essere un buon amico quale non si trova tra la gente perbene, e come dentro si possa ridere e gioire di cuore e annoiarsi e intristirsi fuori. Come sia labile il confine, come sia in realtà sottile la differenza. E non solo tra prigione e libertà, ma anche tra russi in URSS e russi in America. Perché, dice Dovlatov del fine del suo romanzo, «in generale vi viene professata una sola, banale idea: che il mondo è assurdo». E il risultato è un irresistibile umorismo, dove il lampo, ingenuo in apparenza e paradossale, caratteristico della scrittura di questo grande, la battuta fulminea nel più classico stile russo, la situazione esasperata e grottesca, la tolleranza divertita, il comico, fanno ridere, ma non altro che di noi e della nostra condizione. Col sospetto che sia Dovlatov a ridere di noi.
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Ilja Ehrenburg – La tempestosa vita di Lazik
Aleksandra Kollontaj – Vassilissa
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Victor Serge – Il caso Tulaev
Mosca, 1938. Il giovane Kostja uccide Tulaev, membro del comitato centrale del Partito Comunista. In seguito all’attentato, la polizia segreta organizza la ricerca non tanto dell’esecutore materiale, quanto dei responsabili morali che, con il loro atteggiamento critico verso lo stalinismo, avrebbero contribuito a creare il clima in cui è maturato il delitto. Cinque sono i colpevoli designati: l’intellettuale Rublev, l’alto commissario di polizia Erchov, il contadino-soldato Makeev, il vecchio bolscevico Kondriatiev e il trockista irriducibile Ryjik. A tutti costoro, rivoluzionari di provata fede, sono rivolte le accuse più fantasiose e infamanti e si chiede il sacrificio supremo per una causa per la quale hanno già sacrificato tutto. Nel clima di terrore e menzogna che Serge riesce così mirabilmente a ricostruire, uomini irreprensibili, noti per la loro devozione e apprezzati per la loro competenza, arrivano al punto di riconoscersi colpevoli dei peggiori crimini e, per una rivoluzione che è pur sempre la loro, preferiscono morire disonorandosi piuttosto che denunciare gli orrori del regime alla borghesia internazionale. Il caso Tulaev è una lucida analisi dell’universo staliniano, unita a una rigorosa interpretazione storica della Rivoluzione russa, dove il dolore e la consapevolezza di un fallimento non sono però mai per lo scrittore, che pure ne ha sofferto sulla propria pelle le conseguenze, un motivo per venire meno ai propri principi e alla propria coerenza.
Nikolaj Alekseevic Ostrovskij – Come fu temprato l’acciaio
Considerato il capolavoro della letteratura sovietica d’ispirazione realista, Come fu temprato l’acciaio è, per eccellenza, il romanzo della Russia e della sua Rivoluzione. Al centro della narrazione, la vita di Pavel, lavoratore, membro del Komsomol e soprattutto, in un avvincente crescendo di consapevolezza, lotta e dedizione assoluta alla causa, protagonista di quella guerra civile che avrebbe consentito l’avvento del primo stato comunista della storia.
Kostantin Simonov – Compagni d’arme
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Jurij Olesa – Invidia e I tre grassoni
Nell’inesauribile giacimento della letteratura sovietica degli anni venti un romanzo offusca forse ogni altro: Invidia di Jurij Oleša. Enigmatica e limpida, la grottesca storia del «salsicciaio» Babičev e del lunatico Kavalerov non cessa di affascinare e inquietare il lettore, offrendogli, con l’aerea architettura delle sue fantasie, il senso acuto delle tensioni che attraversano e plasmano un mondo. La costruzione di una grande mensa razionale, il Četvertak, opera cui il bolscevico Andrej Babičev consacra ogni sua energia, si fa il presagio di una futura società asettica e funzionale, perfetta nella sua universale attuazione di un utopico ideale di giustizia e felicità. Contro questa futura patria dell’uomo e contro i prototipi presenti dei suoi abitatori insorgono, con astiosa e impotente sedizione, il fratello di Babičev, inventore di Ofelia, un’anti-macchina sentimentale e dissennata, e Kavalerov, poeta fallito. Il conflitto, che potrebbe parere convenzionale, si complica in un gioco infinito di ironie, in un ambiguo scambio di ruoli, in una doppia ottica di scrittura che fanno di Invidia un romanzo assolutamente singolare. La posizione etica dell’autore — chiave di volta della struttura narrativa — è quella di un’organica autodenigrazione, dettata da una sorta di «complesso d’inferiorità» di fronte alla realtà rivoluzionaria. Invidia porta in sé le ragioni che ne fanno l’unico grande romanzo di Oleša, un romanzo che gli garantisce un posto di prim’ordine nella letteratura russa novecentesca. I tre grassoni, scritti poco prima di Invidia e pubblicati dopo di essa, sono una deliziosa fiaba per tutti, la storia di una favolosa lotta di classe e di una non meno favolosa rivoluzione. Lungo fili sottili, che nel suo saggio Vittorio Strada ricostruisce, i due romanzi si legano tra loro cor rimandi e sviluppi problematici e, insieme, formano il compiuto universo immaginario di Jurij Oleša.
Michail Zoscenko – Le api e gli uomini
Zoščenko contende alla coppia Ilf e Petrov il titolo di maggiore scrittore satirico dell’epoca sovietica. Cominciò subito dopo la rivoluzione una brillante carriera letteraria che doveva proseguire per quasi quarant’anni. Il suo nome è spesso legato al duro attacco cui egli, insieme alla poetessa Anna Achmatova, fu sottoposto nel 1946 da Ždanov. Ma questo attacco, legato al ritorno alla «normalità» staliniana dopo la parentesi «liberale» della guerra, nulla ha potuto togliere alla limpidezza della sua fama e alla acuta causticità della sua prosa. Come risulta evidente da questa scelta di racconti, in cui si esplicitano tutta la verve e l’animus dello scrittore, l’opera di Zoščenko resta, nella sua semplicità e nella sua profondità, uno degli esempi più notevoli di una vena satirica presente nella letteratura russa dai tempi di Gogol. E della tradizione letteraria russa, da Gogol a Leskov a Cechov, egli fu indicato dalla critica come un continuatore. In più, l’accostamento iniziale a Nietzsche, al futurismo, a Majakovskij, a Blok e la lucida consapevolezza del grande rivolgimento che il mondo aveva cominciato a vivere, tutto questo inserisce Zoščenko in una problematica letteraria e politica che non è solo russa, ma europea e mondiale.
Veniamin Kaverin – Fine di una banda
Il’ja Il’f e Evgenij Petrov – Le dodici sedie
Dodici sedie, identiche l’una all’altra; in una di esse l’ex proprietaria, la signora Petuchova, ha nascosto dei diamanti, ma le sedie, confiscate dal governo, sono andate disperse per tutta la Russia. Ippolit Vorobjaninov, ex maresciallo della nobiltà, ora modesto impiegato comunale, per recuperare il tesoro ingaggia Ostap Bender, un detective dalle imprevedibili risorse, che è il vero, irresistibile protagonista del romanzo. Sarà Ostap Bender a mettersi a capo dell’improbabile banda, composta anche da un ex pope, e a condurre una caccia al tesoro ricca di colpi di scena e suspense, da Mosca fino al Caucaso e alla Crimea. Le brillanti avventure narrate nelle Dodici sedie (1928) serviranno da espediente per una critica pungente della vita quotidiana sovietica nel periodo della NEP.