Anatolij Kuznecov – Babij Jar

Babij Jar di [Kuznecov, Anatolij]

«Dio sia lodato, è finito questo regime di pezzenti» dice nonno Semerik, che il potere sovietico lo odiava con tutta l’anima, quando i tedeschi occupano Kiev nel settembre del 1941. «Ora si comincia a vivere». Tolik ha solo dodici anni, ma non gli ci vorrà molto per capire che le speranze del nonno sono vane. Ben presto Babij Jar, il burrone nei pressi di Kiev, diventerà la tomba della popolazione ebraica, e poi di zingari, di attivisti sovietici, di nazionalisti ucraini, dei calciatori della Dinamo che si sono rifiutati di farsi battere dalla squadra delle Forze Armate tedesche, di chiunque abbia rubato del pane. E mentre da Babij Jar giunge senza tregua il crepitio delle mitragliatrici, mentre gli attentati organizzati dagli agenti dell’NKVD devastano la via principale e persino la venerata cittadella-monastero, mentre cominciano le deportazioni verso la Germania, Kiev si trasforma in una città di mendicanti a caccia di cibo. Per Tolik, che aveva conosciuto la terribile fame staliniana, non potrebbe essere più chiaro: tedeschi e sovietici si stanno scontrando «come il martello e l’incudine», e in mezzo ci sono i «poveri diavoli» – e lui, in preda a un «mare di disperata angoscia animale». L’unica via d’uscita è assecondare la furibonda vitalità che lo pervade, ricorrere a ogni espediente per sopravvivere in barba a tutto, crescere. Crescere per odiare chi trasforma il mondo in una prigione, in un «frantoio per pietre», per denunciare violenze e menzogne. Anche le ultime, atroci: dopo la liberazione di Kiev, Tolik e sua madre, in quanto persone «vissute sotto l’occupazione», verranno marchiati come «merce di terza scelta» – e il massacro di Babij Jar cancellato.

Vasilij Ròzanov – Foglie cadute. Solitaria Prima cesta Una cosa mortale

Fra i grandi scrittori di quel prodigioso periodo che ebbe la Russia fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, Ròzanov (1856-1919) è forse l’ultimo che deve ancora essere veramente scoperto: e come si può dire che in Nietzsche si rifletta tutto il movimento intellettuale dell’Europa nella seconda metà dell’Ottocento, così si può dire che in Ròzanov si stringano, quasi in un mostruoso nodo, i fili più preziosi della cultura russa, quelli che venivano da Dostoevskij e da Gogol’ e si dipartivano verso la prima avanguardia e la rivoluzione.
Foglie cadute, che qui presentiamo per la prima volta in Italia, è l’opera più ricca, più segreta e più geniale di Ròzanov, quella che – secondo quanto scrive A.M. Ripellino nel suo magistrale e ampio saggio che chiude il libro – meglio rappresenta la sua singolarissima figura di “pensatore arrogante e sboccato, studioso di teologia e antichi culti, polemista protervo, esperto di numismatica, sessuologo, critico d’arte e di letteratura, gazzettiere loquace, magnifico voltagabbana e stolto di Dio, della progenie di quei disperati per cui, come per l’Uomo del Sottosuolo, due più due non fa quattro ma cinque”. Più che un diario, Foglie cadute è la registrazione istantanea di ‘momenti’ del pensiero e della sensibilità di Ròzanov, è un’annotazione del pensare e del vivere mentre avviene. Come in una sterminata soffitta, vi si troverà di tutto: aforismi, brevi racconti, frecciate critiche, lampeggianti intuizioni mistiche, feroci squarci satirici, ritratti memorabili, penetranti osservazioni politiche e filosofiche nutrite da una sensibilità religiosa paradossale e intensa, insieme innovatrice e radicata nella grande tradizione del cristianesimo orientale. E ogni pagina appare qui scandita dalla pulsazione ‘fisiologica’ di una scrittura frammentaria dagli sbalzi repentini, di cui già Šklovskij notava la straordinaria novità e modernità.
Il lettore troverà alla fine del volume un ricchissimo indice ragionato dei nomi, a cura di Alberto Pescetto, che gli permetterà di orientarsi nella selva dei personaggi russi a cui Ròzanov fa riferimento nel suo testo.

Vasilij Ròzanov – Da motivi orientali

Nell’aprile del 1916, compiendo sessant’anni nella Pietroburgo scossa dalla guerra e presto dalla rivoluzione, Rozanov volle celebrare la ricorrenza con «i suoi cari», cioè con i suoi lettori, «condividendo con loro le cose che mi stanno più a cuore…»: in questo caso, l’Egitto. Ma l’Egitto di Rozanov, quale qui si presenta, è eccentrico e sorprendente come tutte le sue visioni. Rozanov, il più pagano fra gli scrittori cristiani, trova in questa remota civiltà il luogo originario dei misteri del sesso e della vita, e ad essi dedica un’ultima meditazione. L’andamento della sua prosa è ondoso, sinuoso, debordante, invadente: il lettore ne sarà subito avvolto, invischiato, affascinato, come affascinati furono tanti grandi scrittori russi, dalla Cvetaeva a Sinjavskij, che ne hanno subìto una profonda influenza.
Per Rozanov, l’Egitto è il talamo, la stanza nuziale dell’umanità. È la terra sopra la quale ancora pulsa il cielo stellato, che poi scompare e lascia un immenso vuoto sopra la nostra testa. Insofferente di ogni gabbia concettuale, Rozanov fu l’inesauribile cantore della fisiologia, colui che più avvicinò la prosa al puro respiro. E la scaturigine della fisiologia è il sesso: «Il legame del sesso con Dio è più grande di quello dell’intelligenza o perfino della coscienza con Dio». Nelle piante di loto, nel limo egizio Rozanov riconosceva l’elemento primordiale a cui voleva riavvicinarsi. «Il segreto e il miracolo, la profondità e l’incanto della civiltà egizia consistono in questo: “nella crescita spontanea della pianta dal suo seme”. E se il seme è la pianta, essa cresce dovunque, perché è tale il destino delle piante. Senonché presso alcuni popoli la pianta cresce “a dovere”, presso altri cresce “a richiesta”. O anche – “secondo una generica aspettativa”. Al contrario, presso gli egizi nessuno “si aspettava”, nessuno “richiedeva” e “faceva” alcunché: essi erano i primi. Perciò “la pianta cresceva spontaneamente”. Tutto è “primordiale” nel loro caso, tutto “ribolle nella propria linfa”». A questo Egitto, con audacia che si proponeva di far rabbrividire i dotti, Rozanov riconduce anche tutto il mondo dell’Antico Testamento, mentre la Grecia e la cristianità tendono a distaccarsene. Ma, nella sua continua, provocatoria paradossalità, Rozanov non chiede un’adesione puntuale ai suoi argomenti. Aspira soltanto a ritrovare una certa pulsazione della vita. «Un po’ di fisiologia. Altrimenti tutto è molto arido…».
Pubblicato nel 1916 in pochi esemplari, e mai più ristampato (Rozanov è tuttora al bando nell’Unione Sovietica), di questo libro si sono conservate non più di dieci copie. Questa è la prima traduzione che ne appaia al mondo.

Varlam Salamov – I racconti di Kolyma. Volume I

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La Kolyma è una desolata regione di paludi e ghiacci all’estremo limite nordorientale della Siberia. L’estate dura poco più di un mese; il resto è inverno, caligine, gelo fino a sessanta sotto zero. Laggiù, dalla fine degli anni Venti, alcuni milioni di persone vennero deportate per volontà di Stalin e sfruttate, in condizioni ambientali disumane, a fini produttivi: scavi nei giacimenti d’oro, costruzione di strade, disboscamenti e raccolta di legname… Šalamov arrivò in quel «crematorio bianco» nel 1937, e vi rimase fino al 1953. Nel 1954, subito dopo il ritorno a Mosca, cominciò a scrivere questi racconti, ovvero a «vivere non per raccontare ma per ricordare». L’arrivo sull’«isola Kolyma», la casistica dei vari tipi di carcerieri, i luoghi e le condizioni del lavoro forzato, la natura ostile e così carica di significati simbolici sono le linee portanti di una creazione poetica che è anche analisi di uno spietato fenomeno antropologico: «con quale facilità l’uomo si dimentica di essere un uomo» e, se posto in condizioni estreme, rinuncia alla sottile pellicola della civiltà.

Varlam Salamov – I racconti di Kolyma. Volume II

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Dalla fine degli anni Venti al dopoguerra milioni di persone vennero deportate e morirono nei lager staliniani, e alla Kolyma, regione desolata di tundra e ghiacci dove «uno sputo gela in aria prima di toccare terra», Šalamov rimase confinato dal 1937 al 1953. L’anno successivo, subito dopo il ritorno a Mosca, tassello dopo tassello Šalamov cominciò a comporre il suo monumentale mosaico contro l’oblio, il suo poema dantesco sulla vita e sulla morte, sulla forza del male e del tempo.

Alexander Fadeev – La disfatta

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Nel bilancio della letteratura nata dalla Rivoluzione d’ottobre, La disfatta., il romanzo che nel 1927 rivelò il giovane Fadeev, si è conquistato un posto sicuro. Un libro dal serrato piglio documentario, vissuto intensamente dal suo autore prima ancora di essere steso sulla pagina. A diciottenni, Fadeev si era arruolato tra i partigiani impegnati contro le armate giapponesi e i cosacchi del dittatore controrivoluzionario Kolčak. Queste pagine ci parlano appunto della drammatica esperienza: il piccolo distaccamento dei guerriglieri è circondato dai « bianchi » e dai giapponesi, per spezzare l’accerchiamento e mettersi in salvo deve affrontare una serie di combattimenti disperati. In un susseguirsi di cavalcate, salvataggi, battaglie, la movimentata vicenda prende il sapore di un poema cavalleresco. Ma non si tratta soltanto di un libro d’azione che affida le sue risorse al ritmo del racconto: a differenza di molti altri romanzieri della guerra civile, interessano a Fadeev i problemi umani dei suoi personaggi, dettagliati con finezza psicologica (qui lo scrittore guarda a Tolstoj, suo maestro di metodo letterario ) : il rozzo Morozka, sorretto nelle prove più difficili da una sua elementare moralità; il giovane studente di città Mečik, che non riesce a «legare » coi compagni; Levinson, il comandante che presta il suo volto alla parte migliore della nuova generazione rivoluzionaria. Una scarna epopea, che senz’ombra di retorica evoca la faticosa formazione di una libertà, di una morale, di una umanità nuova nel crogiuolo della lotta.

Boris Pilniak – L’anno nudo

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Pilniak è una delle figure più importanti e produttive della letteratura russa contemporanea. Nella sua opera, in cui una lettura attuale trova precorrimenti interessantissimi delle nuove tecniche narrative, la tematica è data dalla Russia dei primissimi anni della rivoluzione e della Nep; egli ne dà una radiografia di tale messa a fuoco da consentire scoperte e rivelazioni essenziali. È la realtà provinciale, immota da secoli, dove la vita conserva ancora i costumi e il ritmo del XVII secolo, che egli porta in questo libro, nel momento in cui viene sconvolta dagli eventi della rivoluzione. Troviamo nobili decaduti ed ora spodestati ed espropriati, folli e mistici pellegrini, mercanti di vecchio stampo e la muraglia indifferente e ottusa della borghesia minuta; anziché descritto, quest’ambiente umano storicamente reale è reso nello scompiglio in cui lo gettano quei drappelli di bolscevichi inviati dalla rivoluzione a trascinarlo nella storia moderna. Pilniak utilizza una pluralità di piani del tessuto narrativo, piegando i mezzi espressivi a uno sperimentalismo, ricorrendo a procedimenti intesi a registrare gli stati d’animo nei loro più inavvertibili spostamenti. L’anno nudo, del 1922, è la sua opera più caratteristica in questo senso, ed è un’indagine della Russia immersa nel gran crogiuolo, quale nessun altro scrittore ci ha dato così al vivo. La critica sovietica vide in lui un populista, un nazionalista slavofilo, un formalista; e in seguito la sua attività fu paralizzata. Egli resta però, come pur lo considerava Voronskij — il maggior critico marxista dell’epoca — lo scrittore più vero e provocante degli anni rivoluzionari, quello in cui si affaccia il discorso più intenso e articolato su di essi, il discorso artistico-intellettuale più significativo.

Konstantin Fedin – Le città e gli anni

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Goroda i gody (Le Città e gli Anni) è giustamente considerato il primo effettivo romanzo sovietico: fu Konstantin Fedin (1892-1977) nel 1924 a compiere il tentativo di narrare, sia pure attraverso una vicenda esasperatamente privata, il corale politico della rivoluzione. Un tentativo che, ovviamente, non poteva evitare proprio per la sua ambizione, la sua novità, la sua portata, critiche e accuse, ma che, sempre per la sua ambizione, la sua novità, la sua portata, merita ancora oggi il massimo riconoscimento attribuibile a un romanzo: la gratitudine per averci dato insieme con il senso della vita almeno un’intuizione Storica. Ancora oggi il capolavoro di Konstantin Fedin offre al lettore il privilegio di vivere come possibili dati e date che non si rassegnano all’archiviazione. all’oblio, alla distrazione del nozionismo.

Maksim Gor’kij – Storia di un uomo inutile

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Negli anni della Russia prerivoluzionaria, un orfano, un ragazzo che oggi sarebbe automatico definire almeno parzialmente “disadattato”, dalla campagna si trasferisce in città (Mosca) da uno zio. E qui entra in contatto con l’ambiente dei rivoluzionari. Straordinaria la rappresentazione dell’evoluzione psicologica e affettiva che lo porta a trovarsi nel campo avverso, a diventare un infiltrato, un informatore della polizia. Come pure straordinaria la rappresentazione di una Mosca mai descritta così sordida nei suoi interni: bottegucce miserande, abitazioni gelide, uffici e commissariati squallidi. E anche i rivoluzionari sono presentati con toni non certo eroici e mitizzanti: figure di poco rilievo, come pure di poco rilievo sono i loro oppositori, “spie” avide e pavide. Viene da chiedersi se non è proprio questa assenza di retorica rivoluzionaria che ha reso questo libro un oggetto misterioso, quasi oscurato dalla critica ufficiale che di Gorkij ha sempre preferito esaltare le opere più “ortodosse”.