Fra tutti i romanzi di Joseph Roth, “La ribellione” (1924) è forse il più aspro e sconsolato. Siamo qui immersi nell’atmosfera torbida degli anni di Weimar. Andreas Pum, il protagonista, è un mutilato di guerra che ancora crede nell’ordine del mondo e degli uomini e sogna di gestire una rivendita di francobolli. Ma la sorte, dietro cui si maschera l’oppressione senza scampo esercitata dalla società, lo trasforma a poco a poco in un capro espiatorio, in un Giobbe inerme, costretto a riconoscere l’onnipresenza del male. È questo un estremo delle oscillazioni di Roth, al cui altro capo troveremo, alla fine, l’aura di grazia sovrana che investe “La leggenda del santo bevitore”. Ma i due estremi sono compresenti in tutta la sua opera, e ciascuno dà la forza all’altro.
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Joseph Roth – Viaggio in Russia
Nell’estate del 1926 la «Frankfurter Zeitung» propose a Joseph Roth un viaggio in Russia. Dopo i primi anni di entusiasmo per la rivoluzione, quando si firmava «Roth il Rosso», egli era entrato, ora, in una fase di dubbio: così vide quel viaggio come una preziosa occasione di verifica. Attento, curioso, con occhio vivido e mano ferma, vagò per le grandi città, seguì il corso del Volga, si spinse fra i popoli dell’Asia Centrale, scrivendo a caldo le sue corrispondenze. All’inizio, il suo atteggiamento è di forte simpatia verso quel mondo in formazione. Ma la sua lucidità gli permette anche di vedere il tetro squallore di quell’«uomo nuovo» che già si incontra in ogni strada. Mentre schiere di scrittori occidentali avrebbero visitato la Russia per decenni, gareggiando (salvo poche eccezioni) in cecità e servilismo, Roth vide e seppe raccontare tutto ciò che allora si poteva vedere. Queste sue pagine vibrano non solo per la sua arte di narratore, ma per la sua chiaroveggenza di testimone. A Walter Benjamin, quando si incontrarono a Mosca, Roth disse di essere partito bolscevico e di ritornare monarchico. In verità si stava compiendo in quei mesi la trasformazione di Roth in uno dei suoi personaggi: Franz Tunda, il protagonista di Fuga senza fine, colui che combatte per la rivoluzione e poi si aggira in un’Europa decaduta, ma soprattutto non appartiene più a nulla, ha reciso ogni legame di affinità con tutti i mondi che lo circondano e ascolta «rapito il canto dei tarli». Questo viaggio è una delle prime testimonianze illuminate di uno scrittore occidentale sulla Russia sovietica: ma esso segna anche un passaggio decisivo nell’evoluzione di Roth. Come leggiamo in una lettera da Odessa a Bernhard von Brentano: «È una gran fortuna che abbia fatto questo viaggio in Russia: altrimenti non avrei mai riconosciuto me stesso».
Joseph Roth – Fragole
In una lettera a Stefan Zweig, Joseph Roth annunciava di avere in cantiere «il romanzo della mia infanzia», un’opera autobiografica che prevedeva «d’ampio respiro». E destinata, secondo l’ultima compagna dello scrittore, a diventare il suo libro più bello. Il progettato romanzo, in realtà, non vide mai la luce. Ma il torso che ci è rimasto, “Fragole” – trovato fra le carte inedite –, si presenta di fatto come un’autentica, incantevole novella. Una novella popolata di sarti, vetrai e ciabattini colti nel natio shtetl galiziano, in uno scenario fatto di distese innevate e di neri stormi di corvi sui campi dalle stoppie dure e pungenti sotto i piedi nudi. Alla ricerca della sua terra perduta – con il sapore delle fragole di bosco che richiama un intero universo –, Roth riesce a salvare la memoria di una mitica Heimat, racchiudendola nel prezioso scrigno di un racconto poetico e nostalgico come una ballata yiddish. E non meno preziosa, anche se agli antipodi per ambientazione e tenore, è l’altra novella raccolta in questo volume, “Perlefter”, storia e satira di un borghese ipocondriaco, irresistibile antieroe che sogna avventure grandiose – laddove le sue sono solo meschine e da tener segrete, come gli indirizzi di certe massaggiatrici che si è annotato, con abbreviazioni solo a lui intelligibili, in fondo a un’agendina, «appena sotto l’elenco delle festività ebraiche». Rese vivide da una galleria di personaggi degna di Gogol’ e Dickens, e ambientate nella Vienna dell’ebraismo assimilato – tra café chantant, club esclusivi e sontuosi hotel – o in lontane province trasognate, queste pagine ci fanno ritrovare con gioia il Roth dei libri più amati.
Joseph Roth – Ebrei Erranti
In questo libro appassionante, un reportage che non sapeva di essere un’ultima celebrazione di una grande civiltà alla vigilia della sua scomparsa, Roth ci parla di quegli ebrei orientali ai quali egli stesso apparteneva. E ce ne parla «con amore invece che con quella ‘obiettività scientifica’ che è anche detta noia». Il suo presupposto è «la folle speranza che esistano ancora lettori davanti ai quali non sia necessario difendere gli ebrei orientali». Con lo sguardo del grande narratore, Roth osserva quella formicolante vita, torturata ed estatica, che donò all’Europa un sapore inconfondibile, acutissimo. Nessuno spirito nazionale era riuscito a elaborare così mirabilmente il senso della complicazione, dell’irresolubile groviglio dell’esistenza come lo spirito degli ebrei orientali, chiusi nelle loro cittadine o sparsi per il mondo in una perpetua migrazione. Dietro ognuno di questi ebrei si intravede la figura del rabbino che «in un anno ascolta i destini più strani, e nessun caso è tanto complicato che egli non ne abbia udito uno ancora più intricato». È un mondo che Roth, più di ogni altro, ha saputo raccontare con partecipazione e lucidità anche crudele. Queste pagine ripopolano davanti ai nostri occhi, con la magia della parola, quella parte dell’Europa dove oggi di ebrei quasi non ne rimangono più e continua a regnare indisturbato l’antisemitismo.
Joseph Roth – Autodafé dello spirito
Autodafé dello spirito è la testimonianza dell’impegno civile e politico di Joseph Roth durante gli anni dell’esilio, dal 1933 al 1939. È il grido d’allarme di un intellettuale che non vuole cedere alla follia criminale che lo circonda, ma vede chiaramente il baratro verso il quale la Germani nazista sta trascinando l’Europa. Attraverso questi articoli, alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano, possiamo ricostruire le urgenze e gli sviluppi del pensiero dello scrittore: il suo scivolare dall’iniziale socialismo verso posizioni monarchiche (ma sempre in chiave antifascista), la rivendicazione dell’erranza ebraica (contrapposta al sionismo e alla ricerca di una patria geografica), la difesa dei valori umanistici della cultura europea. Mentre descrive i roghi di libri, l’abbrutimento della propaganda e le colpevoli esitazioni delle democrazie, la scrittura di Roth oscilla tra il sarcasmo, la disperazione e improvvisi slanci di speranza, ma la sua visione rimane lucida fino alla fine. Fino all’ultimo articolo, pubblicato il giorno prima del ricovero in ospedale, dove l’ombra dei campi di concentramento invade il simulacro svuotato di senso della cultura tedesca: «La quercia di Goethe a Buchenwald».
Joseph Roth – La quarta Italia
Nell’autunno del 1928, Joseph Roth è in Italia, inviato dal quotidiano “Frankfurter Zeitung” per raccontare ai lettori tedeschi il Paese di Mussolini. I suoi reportage, raccolti in seguito sotto il titolo “La quarta Italia”, sono un piccolo capolavoro di giornalismo letterario, in perfetto e singolare equilibrio tra ironia e profonda inquietudine. Roth racconta la mancanza di senso del ridicolo nei rituali nel nazionalismo, il pervasivo culto della personalità del Duce, il clima di delazione e lo stato di polizia, l’asservimento della stampa e la censura, le sotterranee forme di opposizione. Il suo sguardo si sofferma sui particolari – l’abbigliamento di una camicia nera o l’ambigua gentilezza del portiere d’albergo che lo spia – e adotta un tono leggero, a tratti umoristico, dietro il quale però lascia emergere, sempre più netto, il grido di allarme. Nella chiave di un pessimismo non ancora disperato, Joseph Roth ci consegna così una lucida e impietosa testimonianza sull’Italia del Ventennio.
Leo Perutz – Dalle nove alle nove
Che cosa nasconde il bizzarro e concitato comportamento di Stanislaus Demba nelle dodici ore di una fatale giornata di inizio Novecento? Quale colpa, quale paura lo mette in fuga attraverso le stazioni di un itinerario tormentoso e funambolico per le strade di Vienna? E perché tutti quegli acrobatismi con le mani? Chiunque racconti questo romanzo a chi non lo ha letto dovrebbe impegnarsi, per puro fair play, a non dare subito la risposta. Ma potrà tranquillamente assicurare al suo ascoltatore che di rado la tensione è stata così palpabile in un libro.
Bottegai, affittacamere, frequentatori di caffè, agiati borghesi della cui prole è il precettore, universitari che imbecca con dispense brillanti: a tutti Demba si rivolge, sempre più solo, disperato – e la girandola dei vani tentativi di raggiungere il suo scopo lo rende enigmatico, affatto incomprensibile allo sguardo altrui. Dalle nove alle nove: in questo tempo febbrile, vertiginoso, simile a uno spazio sigillato, si consumano le peripezie dell’uomo braccato, il suo angoscioso dibattersi nel labirinto della città e delle proprie paure. Un uomo provvisto della capacità di sdoppiarsi, di vedersi agire e di commentare lucidamente ogni evento, e che assiste sempre più impotente al vanificarsi di amore, amicizie e identità personale.
È impossibile resistere al ritmo della narrazione, che ora fornisce indizi ora spiazza il nostro coinvolgimento investigativo. E soprattutto è impossibile non essere catturati da quella tensione che influenzò Hitchcock (nel Pensionante, del 1926) e stregò Murnau fino a fargli desiderare di trarre un film dal romanzo.
Dalle nove alle nove è stato pubblicato per la prima volta nel 1918.
Leo Perutz – Il cavaliere svedese
Leo Perutz è riconosciuto maestro di una specie particolare del fantastico: quella che si insinua nella realtà come una goccia di veleno, e la trasforma dall’interno in un’avventura demoniaca, senza che ci sia bisogno di ricorrere a troppo evidenti apparati di prodigi. Ma l’effetto è ancora più inquietante. Nel Cavaliere svedese, sullo sfondo fosco di un’ Europa di briganti, dragoni e locandieri all’inizio del Settecento, si racconta la storia di un ladro vagabondo che ruba l’identità a un giovane cavaliere svedese, diventando così egli stesso un potente che riesce ad attuare tutti i suoi sogni. Ma la potenza del «barone del malefizio» aleggia, palpabile e imprendibile, su questa vicenda. E il Diavolo sa riapparire sempre, per lo meno quando la partita giocata con lui si avvicina alla fine.
Leo Perutz – Il marchese di Bolibar
Durante la guerra di Napoleone in Spagna, un gruppo di ufficiali elimina un oscuro mulattiere che ha sorpreso un loro segreto amoroso. Ma quel mulattiere è il marchese di Bolibar, figura misteriosa che da quel momento perseguita i suoi assassini in una ridda di avvenimenti, dove i personaggi sono guidati da una ferrea mano invisibile. Questo romanzo, considerato da molti il capolavoro di Perutz, è un esempio perfetto di fantastico puro. E non perché si parli continuamente di spettri e apparizioni sovrannaturali. Al contrario, qui la narrazione è tutta sul concreto, asciutta, vigorosa, e sembrerebbe presentarci soltanto una cupa cronaca militare. Ma nel libro intero circola, come presenza palpabile, un’altra realtà, che alla fine spodesterà la realtà immediata attraverso la figura del marchese di Bolibar, in cui si incarnano «l’avanguardia della distruzione» e una misteriosa leggenda.
La guerra di Spagna, questa prima guerra di guerriglia, ferì a morte il progetto imperiale di Napoleone. E da allora grava come un presagio funesto su ogni progetto imperiale. Qualcosa di irriducibilmente sinistro appartiene a quegli eventi: scena appropriata di una storia nera, di un nero metafisico, qual è quella che Perutz scandisce in questo libro, con un ritmo incalzante che serra la gola. Due reggimenti tedeschi, che combattono per Napoleone in Spagna, vi incontrano la disfatta e la morte. È una morte sospetta: una sorte di autoannientamento provocato, a mente fredda, dalle stesse vittime. Che cosa ha messo in moto questo orrificante meccanismo? Una figura cupa e selvaggia, che appare, scompare, si sdoppia, si trasforma, sfugge – e incombe su tutto, quella del marchese di Bolibar. Il suo segreto attraverso questo romanzo come un raggelante alito millenario.
Leo Perutz – Turlupin
Novembre 1642: tutto è pronto per il colossale bagno di sangue in cui, nel giorno di San Martino, dovranno rotolare ben diciassettemila teste di nobili, per il grande macello dell’aristocrazia di Francia. Ma la macchina – manovrata nell’ombra da un Richelieu ormai alla fine, accecato dall’odio per chi sempre ha osteggiato e intralciato i suoi progetti – si inceppa, e tutto finisce in una bolla di sapone. Come mai? Un uomo bislacco, un sognatore che mentre incipria o rabbercia parrucche vagheggia di avere origini altissime, un essere mezzo Arlecchino e mezzo Charlot, attraversa come un’ignara torpedine impazzita il gran disegno del cardinale. Per contrastare i progetti dei Titani, il destino si serve del folle, sprovveduto parrucchiere Tancrède Turlupin. Il quale, fantasticando di essere ritrovato, riconosciuto e avvinto al petto da nobil madre, finirà per tramutarsi nell’ultimo involontario campione dell’aristocrazia morente contro le forze distruttive sortite dal suo stesso seno: la rivoluzione è rimandata, la Francia e il mondo conosceranno ancora la radiosa stagione del Re Sole.
Maestro dell’equivoco, dell’assurdo e dell’«orrificante caso», Leo Perutz sembra qui aver lasciato, come non mai, briglia sciolta alla sua segreta inclinazione, creando un romanzo che ci scorre davanti agli occhi come un frenetico, irridente caleidoscopio.