A volte a piedi, a volte in treno, a volte in corriera, sempre con gli scrittori amati nella valigia: così Ceronetti viaggiò per l’Italia in un periodo di circa due anni, fra il 1981 e il 1983, ispirato da Giulio Einaudi che aveva intuito sposarsi molto bene la sua indignazione satirica con il resoconto di viaggio. Ceronetti attraversa grandi città e piccole località di provincia, visita piazze, monumenti, musei, ma anche carceri, cimiteri, distretti di polizia, manicomi. Annota i manifesti affissi sui muri, le insegne dei negozi, e denuncia le volgarità che lo feriscono. Ma il libro non è solo un reportage splendidamente fazioso. È anche un taccuino affollato di pensieri, di citazioni, di idiosincrasie. Un’enciclopedia caotica da cui attingere il pensiero di Ceronetti: sempre spiazzante, apocalittico, divertente. *** «Ceronetti ha il dono di sapere tutto prima di saperlo, la conoscenza delle cose e delle parole avviene nel suo minuscolo ventre vuoto di asceta vampiro, di flâneur diurno, di pellegrino italico. La sua prosa è in perenne ebollizione, manda lampi, rombi, sciabolate di fuoco, risate luciferine commiste a lievi sorrisi dolci e funebri, spesso si tace ma se si aguzza l’orecchio ecco il lieve, lievissimo fruscìo della silenziosa aquila delle grandi altezze che tutto vede e tutto sorvola». Goffredo Parise (1985)
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Patrick Leigh Fermor – La strada interrotta
Alla fine del 1933 il diciottenne Leigh Fermor lasciò l’Inghilterra con uno zaino, un vecchio cappotto militare, due libri di poesia, una sterlina alla settimana da ritirare al fermoposta e l’inflessibile proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli. Grazie alla sua curiosità onnivora e alla precisione visuale della scrittura, quell’impresa, raccontata a distanza di oltre quarant’anni in Tempo di regali (1977) e Fra i boschi e l’acqua (1986), è ormai parte del canone della letteratura di viaggio; ma la narrazione si arresta fra i gorghi delle Porte di Ferro, e Leigh Fermor, morto nel giugno 2011 all’età di 96 anni, non è mai riuscito a pubblicare l’ultimo volume della progettata trilogia. L’hanno fatto per lui, fortunatamente, Colin Thubron e Artemis Cooper, i suoi esecutori letterari: e leggendo di palazzi aristocratici, nottate all’addiaccio e migrazioni di cicogne, esperimenti con l’hashish, chiese bizantine ed eruzioni di ferocia nazionalista non potremo che riconoscere l’inconfondibile voce di Leigh Fermor e la sua capacità di assorbire qualsiasi cosa infondendole profondità storica – e conservando intatto il debordante entusiasmo dei diciotto anni.
Giorgio Manganelli – Cina e altri Orienti
«Andare in Asia, eh? So già cosa vi immaginate. Qui sarà tutta una luminaria di illuminazioni, una visione di visioni, una rivelazione di cose che, altrove, non si rivelano. Credete? Mandate a girar per l’Asia un professore nevrotico, diventato poi pensionato, poi gazzettiere, e il risultato sarà sensibilmente diverso. Deprimente, diciamo». Così scriveva Manganelli nell’irridente, paradossale risvolto destinato a spiazzare i potenziali acquirenti della nuova edizione, accresciuta di molteplici Orienti, di un libro apparso in origine nel 1974 (nel frattempo, fra il 1975 e il 1988, ai reportage da Cina, Filippine, Malesia se n’erano aggiunti numerosi altri: Arabia, Pakistan, Kuwait, Iraq, di nuovo Cina, Taiwan). Un’edizione che Manganelli predispose minuziosamente pochi mesi prima di morire, nel 1990 – tanto la serie di viaggi orientali gli stava a cuore –, ma che non venne mai realizzata: almeno sino a oggi, grazie alle cure impeccabili di Nigro. Ma perché «deprimente»? Perché il lettore affetto da ansia di assoluto non avrebbe trovato né Siddhartha né un solo guru, «se non con fondotinta di imbroglione a fin di bene cosmico». Il che non stupisce, essendo scopo precipuo dell’autore, semmai, quello di raschiare via un po’ di anima: sicché «scolorina sulle apparizioni; antinevralgici per i fachiri, sordina sulla scala pentatonica; Coca-Cola nella Cina popolare». In compenso, il lettore avrebbe trovato – divertendosi, per di più, pazzamente – qualcosa di altrettanto prezioso: la chiave per comprendere «i modi ingegnosi in cui l’altrove si nasconde sotto l’apparenza dell’ovvio» e quanto meno intravedere quelle «linee del labirinto» che sono i nostri fratelli ignoti. Anche nelle vesti di viaggiatore, d’altro canto, Manganelli resta un ricercatore di segni, un decifratore di enigmi ed emblemi: in altre parole, un lettore che «non si illude di espatriare dalla propria biblioteca».
Patrick Leigh Fermor – Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli: da Hoek Van Holland al Medio Danubio
Munito solo di uno zaino da alpinista, un vecchio cappotto militare, scarponi chiodati, l’Oxford Book of English Verse e un passaporto nuovo di zecca che gli attribuisce la professione di studente (anziché, come avrebbe auspicato, quella di vagabondo), nel dicembre del 1933 Patrick Leigh Fermor abbandona Londra e una carriera scolastica sciagurata e ribalda. Ha appena diciotto anni, vaghe ambizioni letterarie, ma un progetto nitido e grandioso: attraversare l’Europa a piedi come un palmiere o un cavaliere errante e raggiungere Costantinopoli – la «Bisanzio verde drago» di Robert Byron, «ossessionata dal serpente e tormentata dal gong». Quando vi arriva, il 1° gennaio 1935, è ormai un altro: non solo si è lasciato per sempre alle spalle disastri e misfatti, ma ha sviluppato una rara forma di nomadismo – viaggiare simultaneamente nello spazio e nel tempo – e l’arte, ancora più rara, di trasmetterlo agli altri. Che contempli lo splendore barocco dello Schloss Bruchsal o le nodose mani dei contadini fra cipolle tagliate, caraffe sbeccate e pane integrale; che dorma in un fienile steso come un crociato sulla tomba o nel «capanno da caccia» del leggendario barone Pips Schey a Kövecses; che percorra il Reno su una colonna di chiatte che trasportano cemento o attraversi Vienna offrendosi come ritrattista a domicilio; che sperimenti il Katzenjammer, i postumi di una sbornia, a Monaco o elabori la «formula del lanzichenecco» per spiegare l’architettura delle città tedesche prebarocche; tutto ci appare il dettaglio di un fantasmagorico affresco, tutto sembra ricomporsi in un gigantesco puzzle dove risorge, come un’emanazione di incredibile e accattivante splendore, il passato dell’Europa. E insieme scopriremo qui il modello ancora fragrante di quel modo di viaggiare (e di vivere) che sarà un giorno identificato con la fisionomia di un giovane amico di Leight Fermor: Bruce Chatwin.
Patrick Leigh Fermor – Fra i boschi e l’acqua. A piedi fino a Costantinopoli: dal Medio Danubio alle Porte di Ferro
Nel 1934 Patrick Leigh Fermor ha diciannove anni, e già da alcuni mesi si è lasciato alle spalle l’Inghilterra e un curriculum scolastico scellerato con il fermo proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli, vivendo «come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante», dormendo nei fossi e nei pagliai e familiarizzando solo con i suoi simili. Fra i boschi e l’acqua è il racconto della seconda parte di quel viaggio, e prende avvio dal punto esatto in cui era terminato Tempo di regali: il ponte di Mária Valéria, al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, che di lì a dieci anni sarà minato dai tedeschi in ritirata e mai più ricostruito fino al nuovo millennio. Ma i mille chilometri successivi – dalla Grande Pianura ungherese, lungo il corso del Tibisco e del Maros e attraverso la Transilvania, fino alle Porte di Ferro, dove collidono i Carpazi e i Balcani – aprono una parentesi idilliaca e precaria nel secolo più violento della storia: il ritmo del viaggio rallenta, il passo si fa più pigro, la percezione del tempo svanisce, come in «un felice e gradito incantesimo». Con sapienza lirica, vigore muscolare e superbo talento per la digressione, Leigh Fermor racconta incontri con cervi e boscaioli, ritrae manieri isolati e villaggi di montagna, fienagioni e favolose biblioteche, rievoca notti passate sotto le stelle e amori estivi, riferisce leggende di spiriti, fate e lupi mannari e conversazioni con un’aristocrazia votata all’estinzione. Immagini sparse che compongono un quadro dalla grazia impareggiabile e suscitano nel lettore una sorta di incantamento: segno distintivo, questo, dell’appartenenza di Leigh Fermor alla medesima dinastia di Robert Byron e Bruce Chatwin.