Alla vigilia dell’uscita del suo ultimo film, “Eye Wide Shut”, lo sceneggiatore di Kubrick racconta in un libro “in presa diretta” il punto di vista sul cinema e sul mondo di uno dei massimi registi contemporanei.
Consiglio a cura di Flextime.
Film, girato a New York nell’estate del 1964 sotto la direzione di Alan Schneider e interpretato da Buster Keaton, rappresenta l’unica sortita di Samuel Beckett in campo cinematografico. Si tratta in realtà di un film assai particolare, interamente muto tranne un sommesso «ssh» iniziale, tutto centrato sul tentativo del protagonista di sfuggire ad ogni percezione, tentativo destinato fatalmente a fallire in quanto non è possibile liberarsi dalla percezione di sé. Beckett annota minuziosamente indicazioni di lavoro, suggerimenti per la regia, a cui premette un breve inquadramento sul tema di fondo. A complemento di questa sceneggiatura, il racconto del regista ci aiuta a penetrare nelle difficoltà di realizzazione di un testo così particolare. Le brevi commedie che seguono Film sono state tutte composte, tranne Il vecchio motìvetto, nel 1984, ed illustrano gli ultimi sviluppi della ricerca beckettiana, volta ad una sempre maggiore autonomia dalle mediazioni della parola.
Consiglio a cura di Flextime.
Sul rapporto tra cinema e filosofia, oggi sempre più analizzato e frequentato, Gilles Deleuze si era pronunciato già nella prima metà degli anni Ottanta, scrivendo due testi ancora oggi molto attuali e discussi. Soltanto la filosofia, egli afferma, può arrivare a “costituire i concetti del cinema stesso”. Ripercorrendo questi concetti, dieci in tutto, ed evitando, come diceva lo stesso Deleuze, la doppia ignominia dell’eccessiva erudizione e di un’esagerata familiarità, questo libro intende ricostruire i contenuti e l’atmosfera del suo pensiero sul cinema. Senza rinunciare a proporre, a partire dalle categorie filosofiche deleuziane, letture di particolari autori e di film significativi.
Grazie a Mitzicat per questa scansione.
Summa della sofferta riflessione estetica dell’autore, maturata fra il 1970 e il 1986 (anno della sua morte) in stretto connubio con le proprie vicende personali (poi confluite più ampiamente nei diari pubblicati con il titolo di “Martirologio” — Firenze, Edizioni della Meridiana – 2002), il libro si configura come una lucidissima ed appassionata dichiarazione/analisi sulle enormi potenzialità dell’arte (in special modo quella cinematografica, ma non solo), in cui l’elemento “Tempo” diviene il fulcro centrale di una concezione poetico-filosofica tra le più straordinarie ed originali di tutto il novecento (concretizzatasi sullo schermo in alcuni indimenticabili capolavori quali Andrej Rublev, Solaris e Stalker), capace di emanare la sua influenza fino a giorni nostri nelle opere di grandi autori contemporanei quali Sokurov in primis, Tarr, e Von Trier.