Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da «negligenza e goffaggine»; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre «quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza l’altrui»; che l’Innominabile di Beckett, se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far «sorridere familiarmente lo psichiatra»; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela l’altra faccia del proprio understatement – nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dell’ironia, «che la letteratura sia una cosa seria».
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Tommaso Landolfi – Diario perpetuo
Ricordi che gettano sugli anni della giovinezza una luce di malinconica vanità o di inquietante presagio; fuggevoli incontri che rimangono impressi «come un che di struggente e d’improbabile: di lunare»; corteggiamenti che altro non sono se non convulsioni d’infelicità e solitudine, matrimoni ridotti a «secchi schianti di disprezzo» e l’intollerabile vuoto lasciato dal disamore; fantasie che prendono improvvisamente corpo diffondendo un odore di morte, inspiegabili visioni notturne di un volto umano librato contro un angolo della stanza e la falla sempre in agguato nel tessuto delle apparenze; esistenze che si trascinano per mera forza di volontà o per assurda scommessa come a un tavolo di chemin de fer e il vano tentativo di contrastare il tempo che «reclama con ansia ed angoscia accadimenti»; l’impossibilità di trovare il chiarimento che cerchiamo e la volontà di morte «quale unica possibile dignità, in fondo a ciascun uomo». Sono i motivi fascinosi e allarmanti che subito ci afferrano allorché leggiamo gli elzeviri landolfiani apparsi sul «Corriere della Sera» fra il 1967 e il 1978, e che avrebbero dovuto comporre – se non fosse sopraggiunta la morte dello scrittore – un volume da affiancare a Un paniere di chiocciole (1968) e Del meno (1978). Beffardi pezzi di prosa, «innocenti raccontini», amari frammenti di memoria ai quali è affidato l’assoluto disincanto di un Landolfi che ormai ritiene occorra «una tal quale dose di follia per raccontare una storia», ma non sa e non può rinunciare all’ultima sua risorsa: la scrittura nella sua chimica, provocatoria purezza.
Tommaso Landolfi – Viola di morte
La prosa di Landolfi, tra le più musicali della letteratura italiana, lascia intravedere in filigrana un’ambizione poetica dirompente ma al tempo stesso messa a tacere, forse per l’oscuro timore – evocato in un racconto del 1937, «Night must fall» – che a lasciarsi andare «ne sarebbe venuto fuori qualcosa di troppo bello … e allora tutto sarebbe finito e riprecipitato in una voragine senza fondo». Ancorché non esercitata, tuttavia, quella «divina facoltà» non poteva che riaffiorare: non a caso, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentua il suo sdegnoso isolamento, Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica, e dunque innocente, che prepara il ritorno alla poesia. «Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute / D’una musica perduta. / La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova, / Ma l’avventurosa prova / Del verso gettato al vento» leggiamo in Viola di morte, diario in versi apparso nel 1972, dove Landolfi ci mostra quel volto che sempre aveva velato «in modo quasi ossessivo, come se fosse dominato da un puro istinto di sopravvivenza che lo costringa a ripetere continuamente il suo nome» (Citati).
Tommaso Landolfi – Il tradimento
Come il diario in versi Viola di morte (1972), anche Il tradimento, che ne è «grave e terribile seguito», sembra alimentato dal furore e dalla rabbia, quasi che scrivere colmasse in Landolfi – sono parole di Citati – «una tremenda voragine esistenziale, che torna a riaprirsi alla fine di ogni poesia, più angosciosa di prima. Ora i suoi versi ci rivelano l’immediato scatto dei nervi: ora tendono alla scansione nuda dell’epigramma e dell’aforisma. Non volano mai, non cantano mai, non corteggiano mai le grazie dell’immagine e della musica». E la ragione è chiara, lacerante: ugualmente allettato dal versante ‘selvoso’ della prosa e da quello ‘brullo’, ‘spoglio’ della poesia, Landolfi si sente ormai, da entrambi, ugualmente respinto.
Tommaso Landolfi – Ombre
Questo libro, pubblicato da Landolfi nel 1954, contiene alcuni fra i suoi più celebrati racconti fantastici, come La moglie di Gogol’ o Lettere dalla provincia. Ma, con somma sprezzatura, Landolfi ha mescolato queste formidabili, e insieme esilaranti e sinistre invenzioni narrative, a una serie di schizzi, per lo più riferiti alla sua giovinezza ipocondriaca e vissuta col diverso passo di una formidabile e straniante intelligenza. Chiude il libro la sezione intitolata «Commiato», una sequenza di miniature dove la prosa raggiunge d’improvviso un lucore madreperlaceo, mallarmeano («Parole sorgevano, s’incarnavano e lentamente tramontavano, sull’equoreo orizzonte, contro il cielo perso»). Una forma così sconcertante può essere ricondotta, come indicò Calvino, al gesto di chi «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore». Al tempo stesso, al lettore di oggi potrà presentarsi il legittimo sospetto che sia proprio tale composizione frastagliata e caparbiamente sconnessa a far sì che risalti sempre sulla pagina, con inquietante nettezza, il timbro inconfondibile di Landolfi, la sua superba malinconia, la vocazione a corteggiare, sotto ogni aspetto, «la fumosa stella del naufragio».
Tommaso Landolfi – Rien va
Con Rien va Tommaso Landolfi, scrittore elusivo, mascherato, mistificatorio per eccellenza riguardo alla propria persona, ha scelto la via di un’ulteriore provocazione, rovesciando bruscamente i termini del gioco: pubblicato nel 1963, questo vero libro segreto – un diario del periodo ’58-60 – si inoltra infatti nell’intimo e non cela paure e ossessioni, dal denaro al tappeto verde alla scrittura stessa. Al centro, una sorpresa che è anch’essa un brusco rovesciamento rispetto alla vita precedente di Landolfi: la nascita di una bambina, con lo stupore e l’euforia che l’accompagnano. Così questo zibaldone di pensieri, spesso taglienti e sconcertanti, si presenta come l’unico squarcio capricciosamente concesso dall’autore sulla propria esistenza più nascosta. «La letteratura non è vita» scrive Landolfi in Rien va. Ma nulla più di un libro come questo vale a smentirlo.
Tommaso Landolfi – Le più belle pagine. Scelte da Italo Calvino
Nel 1982, muovendo dalla constatazione che Landolfi ebbe in sommo grado «la dote di catturare l’attenzione e la meraviglia del lettore» ma accompagnata da una «fama d’impraticabilità e stranezza», Italo Calvino si cimentò nell’ardua impresa di allestire un invito alla lettura sotto forma di antologia. Dopo aver setacciato le raccolte pubblicate da Landolfi nell’arco di oltre quarant’anni, Calvino scelse da ultimo cinquantatré testi. Organizzati in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti luminosi spunti critici – «Racconti fantastici», «Racconti ossessivi», «Racconti dell’orrido», «Tra autobiografia e invenzione», «L’amore e il nulla», «Piccoli trattati», «Le parole e lo scrivere» –, essi consentono di cogliere in tutte le sue rifrazioni un’opera sconcertante. E soprattutto di cogliere il vero Landolfi, quello che «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore».
Tommaso Landolfi – Un amore del nostro tempo [Epub – Mobi]
Sigismondo e Anna, fratello e sorella, giovanissimi, si ritrovano, in occasione della morte del padre, nel maniero di famiglia. Si scrutano, sentono riaffiorare la complicità infantile. Ma a lungo non osano dirsi che sono follemente innamorati uno dell’altra. Questa situazione ricalca perfettamente (e il richiamo è una sfida) quella della seconda parte dell’Uomo senza qualità di Musil, quando Ulrich e Agathe si ritrovano. Ma il parallelo va ben oltre: come Ulrich e Agathe, una volta abbandonati al loro amore, cercheranno le «isole felici», in Polinesia, così anche faranno Sigismondo e Anna. Con una decisiva variante: a loro tutto va bene. Eppure alla felicità si accompagna sempre un’angoscia sottile e invincibile, un senso di «voraginosa sospensione».
Questo romanzo estremo e provocatorio fu pubblicato da Landolfi nel 1965 e passò inosservato, come un vero libro fantasma. Le scarse voci dei critici sembrarono deprecarlo, perfino come «dannunziano», in ossequio alla perenne vocazione italica per il «politicamente corretto», che obbligò per almeno trent’anni dopo la guerra a tacciare di dannunzianesimo tutto ciò che sapesse di décadence, quindi di letteratura. L’equivoco era totale. Il linguaggio alto, perennemente sopra le righe, di Sigismondo non è certo quello di Andrea Sperelli ma di un altro Sigismondo, quello di Calderón nella Vita è sogno, e allude a uno stato di reclusione metafisica, di prigionia in qualcosa che, pur non essendo la realtà, non accetta neppure una qualche realtà esterna: ora, questa è appunto la condizione originaria di Landolfi, quella piaga tormentosa da cui stilla tutta la sua letteratura, in fondo anch’essa una passione colpevole. In questo romanzo dunque il gioco di Landolfi è particolarmente audace, e diviso su due tavoli: come vita e come letteratura. Nella storia dei due fratelli egli sembra avere racchiuso la sua immagine segreta di una felicità acuminata, «sulla punta di noi» – e il riconoscimento amaro, vibrante, di un’impossibilità che rode dall’interno qualsiasi forma della felicità.
Tommaso Landolfi – La spada [Epub – Mobi]
Con una verve e un gusto del pastiche che fanno irresistibilmente pensare a un certo Borges, Landolfi ci offre in questa silloge novellistica un breve ma strabiliante repertorio di pezzi di bravura, che rinnoverà nei suoi lettori più fedeli il sottile piacere di essere partecipi, e complici, del gioco di alta prestidigitazione della scrittura landolfiana. E il piacere verrà moltiplicato dalle innumerevoli sfaccettature dei temi e delle tonalità: dal racconto eponimo – una perfetta parabola sulla tormentosa gestione del talento e dell’irresolutezza –, dove si narra di un nobiluomo che usa una spada avita per tagliare in due la fanciulla che ama in una sorta di rito dolcissimo e struggente; alla relazione accademica di un cane – un professore arzebeigiano, Onisammot Iflodnal –, il quale annuncia a un pubblico parecchio irritato che anche gli uomini, sebbene non tutti, «intendono, sentono, pensano»; a «una cronaca brigantesca» che già nell’epigrafe, tratta da Michael Kohlhaas, evoca atmosfere kleistiane; al solo apparentemente comico Il babbo di Kafka, in cui l’ironia vela a malapena risvolti dolorosamente autobiografici… Uscito da Vallecchi nel 1942 e poi confluito nei Racconti, sempre vallecchiani, del 1961, La spada raduna – con l’eccezione di Nuove rivelazioni della psiche umana e Voltaluna, inediti – testi originariamente apparsi in quotidiani e riviste fra il 1939 e il 1941.