“… Ma la caccia dialettica è una caccia magica. Nella foresta incantata del Linguaggio i poeti vanno espressamente con lo scopo di perdersi, e inebriarsi di smarrimento…
“Nelle pagine che in modi e tempi diversi Valéry trasse dall’ininterrotta meditazione dei suoi Cahiers è dato al lettore d’incontrare figure sorprendenti e capziose: divinità sopite o sibilline, mostri compositi quali sirene o centauri, antri e cacce magiche, — metafore nate dall’esperienza del maraviglioso poetico e dalla diffidenza per il preteso rigore del linguaggio estetico.
Una sottile polemica antifilosofica presiede, infatti, alla scelta di queste formule eleganti ed apparentemente elusive, che traducono in teoria non solo l’esercizio del “fare poesia”, ma quello — ben più importante agli occhi di Valéry — del continuo “osservarsi in quel fare”: la Ragione diventa, così, una divinità “che crediamo vegli, ma che dorme piuttosto, in qualche grotta del nostro spirito”, la Dialettica è un cacciatore che incalza invano la sua preda “braccandola, spingendola fin nel boschetto delle Nozioni Pure”, mentre la critica letteraria si affanna con vacua pedanteria a “contare e misurare i passi della Dea”.
Questo popolo di figure — tratto da un comune, o da un personale patrimonio poetico — interviene nelle pagine di Valéry con funzione sottilmente dissacrante: lo sfarzo variopinto di una metafora, il marmoreo nitore di una similitudine sono strumenti di una critica garbata ma corrosiva che mette in discussione quelle stesse tradizioni di pensiero e di linguaggio su cui si fonda la nostra cultura.