Nel 1967 Manganelli dirige la serie italiana di una collana Einaudi. A preoccuparlo è la veste grafica, che con il suo opaco grigio rende i volumetti simili ad «antichi, nobili epitaffi»: «E si veda il bell’egualitarismo del procedimento, che pareggia miopi, presbiti, ipermetropi, daltonici ed astigmatici in una comune, edificante inettitudine a leggervi alcunché» commenta. Basterà questo passaggio di una comunicazione ‘di servizio’ per far capire che tipo di consulente editoriale sia stato Manganelli: eccentrico e brillante, sempre pronto a sfoderare uno humour di volta in volta giocoso, paradossale, corrosivo. Ma non ci si inganni: Manganelli è stato un editor (e traduttore) tutt’altro che sedizioso: disciplinatissimo, piuttosto, duttile e minuzioso. Un editor capace di progettare collane e costruire libri, suggerire titoli, periziare traduzioni con estroso rigore: «… qualche volta la traduttrice tende a dar più colore di quanto non competa a questa gelida carne…» scrive di una Ivy Compton-Burnett che gli era stata sottoposta. Ma capace soprattutto di stendere pareri di lettura e risvolti dove astratto furore dello stile, schietta idiosincrasia e verve beffarda celano una micidiale precisione di giudizio: «La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni…» (qui la vittima è Doris Lessing). Una precisione, tuttavia, che nel rifiuto sempre si premura di spogliarsi di ogni drasticità: «Il mio parere è negativo, ma senza ira».
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Giorgio Manganelli – La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990
Può apparire un paradosso che uno scrittore apparentemente difficile e antirealistico fosse anche un osservatore acuto della società e del costume italiani, e soprattutto un comunicatore affabile. Un paradosso sancito già in vita dal successo popolare che Manganelli ebbe come elzevirista, e confermato da questa raccolta delle interviste concesse dallo scrittore. Oltre a riflessioni sulla letteratura e sull’attività dello scrittore, Manganelli affronta qui temi di costume, di politica, di vita quotidiana, offrendo ogni volta intuizioni acute e spiazzanti.
Manganelli, Giorgio – Ti uccidero, mia capitale
Avventurandosi in questa silloge di scritti inediti, stesi fra il 1940 e il 1982, chiunque pensasse di conoscere Manganelli dovrà ricredersi, giacché l’intera sua produzione risulta illuminata come da una luce radente – quella che emana da un laboratorio segreto e pieno di sorprese. A partire dal tenebroso racconto che dà il titolo al volume: «M’ero disegnato il suo corpo come una mappa, con vene di strade e arterie di ramblas e avenues carotidee e i crescentes capezzolati e le esedre genitali» leggiamo già inquieti, e non tardiamo a comprendere che si tratta del corpo indifeso e passivo – eppure smisurato e minaccioso – di una donna che dorme. C’è un solo modo per sbarazzarsi di quell’atlante infinito, per evadere dalla casa di carne che lei ha costruito, ci spiega la nitida e allucinata voce narrante: accostarle una rivoltella alla tempia e straziarla: «Ti ucciderò, mia capitale; mio quartiere residenziale; sede del mio deportato governo; mia Stadt; esilio di turbolenti anarchici». E non meno fosca, allarmante è la bellezza degli altri racconti, nutriti di poesia barocca e dei prediletti Swift, Lamb e De Quincey, dove si agitano personaggi-paesaggio vittime di alterazioni dimensionali, visitati da incubi, metamorfosi e apparizioni polimorfiche, attraversati da forze oscure e angosce, assediati da un nulla «popolato di nulla tormentosi» – e capaci di parlarci di verità ultime quasi celebrassero una fastosa e gelida cerimonia verbale. Come colui che, nel fulminante “Un libro”, illustra il colpo segreto che ci resta – la morte volontaria – quando tutto sembra perduto; la convivenza con il nostro «quotidiano assassino», il nulla; la necessità dell’odio, legittimo rifiuto delle «fascinose soluzioni sbagliate»; la vana ricerca di Dio, di cui non conosciamo che una forma ingentilita e commerciabile: «una divinità sorridente, qualunquista, transigente».
Giorgio Manganelli – Improvvisi per macchina da scrivere
Il ticchettio della macchina da scrivere, per Giorgio Manganelli, nasce «dai capricciosi amori di un cembalo estroso e di una mite mitragliatrice giocattolo». Non è un caso, dunque, che nei suoi “Improvvisi” un’incessante mutevolezza di melodie e di fraseggi (ossia di temi e di linguaggi) si accompagni a una tonalità ironico-umoristica percorsa da nere venature malinconiche.
Gli spunti (le «arie» su cui improvvisare) sono spesso offerti da un minimo fatto di cronaca, una polemica frivola, un provvedimento ministeriale bizzarro. La notizia sulle rivendicazioni sindacali dei sagrestani, per esempio, consente a Manganelli di elogiare l’operato di queste figure avvolte di «modesta, innocua magia»; l’attacco troppo facile della scienza alla parapsicologia lo spinge a una difesa paradossale («basta forse che una cosa non esista, perché sia impossibile frequentarla?»); e il ritorno domenicale delle targhe alterne gli ispira una pagina memorabile su chi legge Dostoevskij dopo vent’anni o si spezza una gamba per sfruttare la rapidità delle ambulanze nella città deserta. In ogni passaggio, queste improvvisazioni sono anche inversioni, capovolgimenti del senso comune. Da un lato, la quotidianità più opaca assurge a una dimensione fantastica e metafisica, con la banca trasformata in «un luogo strano», accanto alle stazioni ferroviarie, alle parrocchie di campagna e ai cimiteri. Dall’altro, i massimi sistemi slittano in una dimensione grottesca e prosaica, perché la morte – questa «cosa ridicola» – è stupida «come è un po’ stupido sposarsi». Tutte le apparenze vengono così smascherate in un gioco demistificatorio che sembra fondere miracolosamente Lewis Carroll e Flaiano, e che produce l’effetto descritto da Pietro Citati: «lacrime di gioia, furori di ilarità», che distruggono «le istituzioni, i costumi, le abitudini, la noia dell’esistenza quotidiana».
Giorgio Manganelli – Il rumore sottile della prosa
Giorgio Manganelli non fu solo un grande scrittore, ma un impareggiabile chiosatore di quel teatro dai gesti minimi che è l’attività del leggere e dello scrivere. Dopo averci dato, con “La letteratura come menzogna” (1967), una succinta teologia della letteratura, Manganelli andò scrivendo su temi affini, fra il 1966 e il 1990, una serie di articoli che finirono per configurarsi come un libro consequenziale e ramificato. Libro che l’autore non riuscì a pubblicare: ma, per nostra fortuna, rimane traccia fra le carte di Manganelli del progetto di articolazione formale che esso avrebbe dovuto avere. E tale traccia è stata puntualmente seguita. Forse questo libro andrebbe letto come una «lettera a un giovane prosatore» (intendendo per prosatore chi abbia un qualche orecchio per «il rumore sottile della prosa» e al tempo stesso, come ogni vero scrittore, sappia riconoscersi «eroicamente incompetente di letteratura»). Perché tutto il libro può essere considerato come una protratta risposta a un interrogativo «buffo e sconvolgente»: «perché scrivete?». E da quell’interrogativo, come in una proliferazione invincibile, rampollano miriadi di altri interrogativi, fino ad alcuni di suprema e quasi irrespirabile difficoltà – come quel «che cosa dunque ‘non è’ un racconto?» che qui trova una magistrale risposta. Ma non meno magistrale – e si starebbe per dire definitiva, se non fosse per quel lieve sorriso che la parola suscita in questioni di letteratura – la risposta a Primo Levi a proposito di un altro interrogativo, questa volta incresciosamente frequente, su che cosa sia e che cosa significhi lo «scrivere oscuro». Mentre seguiamo Manganelli in questi impervi e ingannevoli percorsi, incessantemente il nostro orecchio si educa al «rumore sottile» di una delle più belle prose italiane dei nostri tempi.
Giorgio Manganelli – Nuovo commento
Se volessimo dividere in fasi l’opera di Manganelli, il “Nuovo commento” (1969) apparterrebbe sicuramente a quella che potremmo definire «eroica», in cui lo scrittore, impugnata una lancia istoriata di segni, tentò di raggiungere il luogo da cui sgorgano i segni stessi, vero «pozzo natale e mortale», nonché «sole nero» di ogni scrittura. Presupposto vertiginoso e altamente astratto, da cui però l’arte di Manganelli è riuscita a far scaturire una tensione romanzesca e persino – quale audacia in un tale contesto! – dei personaggi. Sicché alla fine si scoprirà che ciò che leggiamo è un fosco, metafisico dramma, la cronaca di «una qualche continuata, notturna catastrofe». Questo libro rimarrà fra gli esempi più evidenti di ciò che può la letteratura quando si abbandona totalmente al proprio gioco. Appena lesse il manoscritto del “Nuovo commento”, Italo Calvino indirizzò a Manganelli una lunga lettera, finora inedita, che rimane a tutt’oggi la più densa e illuminante lettura del libro. Manganelli la conservava nella sua copia del “Nuovo commento”, quasi quel commento al commento appartenesse ormai al testo. La pubblichiamo qui in appendice insieme al risvolto – come sempre prezioso – scritto dall’autore per la prima edizione.
Giorgio Manganelli – Mammifero italiano
L’aborto, l’amor di patria e Carosello, le raccomandazioni, le tasse e il caso Tortora: su temi come questi Manganelli è intervenuto, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, usando un’arma che gli era massimamente congeniale – il corsivo fulminante – e sempre mandando gambe all’aria moralismi e cliché. E da quei corsivi sbiechi e solitari emerge un ritratto dell’Italia che oggi più che mai lascia ammirati e scossi. Manganelli demolisce infatti i sacri valori italici: la famiglia, anzitutto, produttrice indefessa di psicopatologie varie, anche criminali; e la Patria, che in effetti è arduo amare in toto, incluse «la periferia nord di Foggia, le latrine di tutti indistintamente i ristoranti e le tavole calde dell’autostrada». Il nostro Paese è in fondo una madre avara e insieme indulgente, che «non dà il dovuto ma si lascia insolentire», garantendo così «una lamentosa e innocua esistenza». Non c’è dunque da stupirsi che gli italiani siano cittadini mediocri, afflitti da un’endemica cattiva coscienza – e «il fatto di non essere in galera è semplicemente un segno che da noi lo Stato non funziona». Osservatore implacabile ma partecipe, Manganelli ci racconta e si racconta, e ogni piega del suo discorso cela una gemma di comicità: come quando invita il presidente Pertini, la cui popolarità minaccia le istituzioni, a farsi assegnare il diritto di imporre «un qualsivoglia numero di rigori ad una qualunque squadra di calcio, anche a partita finita, con un semplice colpo di telefono».
Giorgio Manganelli – Il presepio
Esiste, certamente, una felicità natalizia – ma essa è intrecciata indissolubilmente a una «infelicità natalizia». Ogni vera festa è gioiosa e angosciosa – e perderebbe senso se uno solo dei suoi elementi prevalesse sino a far dimenticare l’altro. Mai questo appare con evidenza così provocatoria come per il Natale, poiché «si sa che al Natale non si dà fuga; in nessun modo».
Anni fa (non sappiamo con certezza quando) Manganelli cominciò a scrivere e portò a termine questo libro, senza farne parola a nessuno. Oggi, ritrovato fra le sue carte, “Il presepio” ci appare come una importante scoperta: un viaggio sfrenato all’interno della festa per eccellenza. Dopo un magistrale inizio, che illumina l’ambiguità del Natale, con quel senso di inquietudine e angoscia che è il contrappunto della dichiarata euforia, Manganelli prende il coraggio a due mani e decide di iscriversi al presepio, poiché il Natale, che è anche una cigolante macchinazione cosmica, in quanto tale «secerne da sé uno spettacolo, ha personaggi, un paesaggio, luminarie, talora musiche» – e dunque «è lecito affermare, è, diciamo, buona critica affermare che il Natale non è tanto la festa del bambino, o che altro sia, ma una rappresentazione nella quale tutti i personaggi hanno uguale necessità, dal maggiordomo all’imperatore». Così vedremo l’autore trasmigrare nelle figure di cartapesta, diventare «un sodale della Madre, del Padre, del Pastore uno, del Pastore due, della Pastorella, della Vecchietta, del Ruscello, del Bue, dell’Asino, e di quant’altri vorrà accorrere alla celebrazione dell’inizio del Significato». Quale migliore occasione per un teologo-narratore quale fu Manganelli? Così il presepio diventa un vortice fantastico, dove ci trascina una prosa che rare volte è stata altrettanto perfetta.
Giorgio Manganelli – L’isola pianeta e altri settentrioni
Per anni, quando i suoi viaggi erano soprattutto quelli del filobus romano 62, da via Nomentana a piazza San Silvestro, Manganelli coltivò un sogno temerario: spingersi sino alle isole Faeròer. Nel 1978, vincendo timori e angosce, con una valigia munita di tutto quanto un “frequent flyer” giudicherebbe forse inessenziale – un Dickens come amuleto e “blande mani chimiche” che sappiano coccolare nei momenti difficili -, lo scrittore partì alla volta dell’arcaica Islanda, prima tappa della sua incursione nel grande Nord. E l’esito di quel viaggio è questo reportage: lo sguardo del traveller sembra capace di svelare la segreta essenza dell'”isola pianeta”, dove il mondo è preumano, folle e criptico.
Giorgio Manganelli – Lunario dell’orfano sannita
Fu un incontro micidiale e memorabile, quello fra la scrittura di Giorgio Manganelli e la realtà di tutti i giorni. Il fiammeggiante teorico della letteratura come essere autosufficiente e barricato in se stesso contro ogni pretesa della realtà investiva ora con temerarie incursioni ogni sorta di plaghe del mondo circostante – oltre tutto scegliendole dispettosamente fra quelle meno frequentate dalla letteratura.
Il calcio, la scuola, l’astrologia, la Chiesa, il conformismo, gli intellettuali progressisti, la caccia, la televisione, la nevrosi da traffico, il turismo di massa, il cinema, l’università, il divorzio, lo spionaggio telefonico… Ma anche: il Duomo di Milano, un congresso di appassionati della cremazione, il Corano, un trasloco, i rapporti fra sesso e politica… Si direbbe che quasi ogni luogo deputato del cicaleccio serioso venga scompigliato e scompaginato in modo irrimediabile da questi futili corsivi. Come quando lo sguardo di Manganelli, fedele erede dell’«orfano sannita», questo essere espunto dalla storia, che continua a osservarla con il puntiglio del fantasma, comincia a vagare per il Louvre – e la penna annota: «Il Louvre vuole essere tutto, e forse è veramente tutto. Lo si percorre non senza orrore, come un ospedale di mendicità, un cronicario di capolavori incurabili».
“Lunario dell’orfano sannita” fu pubblicato per la prima volta nel 1973.