«Di tutti gli scrittori della sua generazione, francesi e stranieri, che negli anni Ottanta vivevano a Parigi, era forse il più grande. Di certo il più invisibile» scrive Milan Kundera di Danilo Kiš, precisando poi: «La dea chiamata Attualità non aveva motivo di puntare i riflettori su di lui … non ha mai sacrificato i suoi romanzi alla politica. Ha potuto così cogliere quel che vi era di più straziante: i destini dimenticati sin dalla nascita». Parole che sottolineano la refrattarietà di Kiš a qualsivoglia appartenenza, anche in momenti e in luoghi in cui certe lusinghiere etichette avrebbero automaticamente garantito vaste simpatie («Io non sono un dissidente» scriveva). Giacché l’unica patria di Kiš è la letteratura, e l’unica sua militanza quella di «scrittore bastardo venuto dal mondo scomparso dell’Europa centrale». Di questa irriducibile libertà offre una eloquente testimonianza Homo poeticus, raccolta di saggi e interviste in cui Kiš, applicando il suo genio a un ampio ventaglio di temi, spazia ora nella grande letteratura europea e americana – consegnandoci pagine magistrali su Borges, Flaubert, Nabokov, Sade –, ora nella storia del Novecento. Ovunque egli rivendica la ricchezza polimorfa e la sostanziale unità della tradizione europea, di cui l’anima balcanica è parte insopprimibile, e, contro la riduzione dell’uomo a zôon politikón, le ragioni dell’homo poeticus, inesorabile testimone di destini condannati in partenza all’oblio, di tragedie silenti, di tombe senza nome e, da ultimo, del delirio di un secolo.
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Danilo Kiš – Una tomba per Boris Davidovič
Il volto di Boris Davidovič e quello butterato del suo carnefice, intento a estorcergli l’ennesima «falsa confessione», si fronteggiano nel buio di una cella densa di fumo: il primo cerca di conservare la dignità nella caduta e nella morte, l’altro di preservare «la severità e la coerenza della giustizia rivoluzionaria» in nome di interessi superiori.
Ma questo scontro, che finirà per prendere stabile dimora nella memoria del lettore, è solo il più raggelante fra gli accordi di una intensa partitura di sette variazioni su un unico tema, quello della sopraffazione e della persecuzione costitutive non solo del «socialismo reale», ma anche della Storia in generale – come mostra, nella Tolosa trecentesca, il massacro degli ebrei non battezzati da parte della folla cristiana. Tuttavia è soprattutto nelle città e nei paesaggi eurasiatici del Novecento che si collocano gli emblematici episodi che Kiš, basandosi su fonti tanto affidabili quanto misconosciute, ci racconta. Da un remoto distretto dell’Europa orientale, dove la brutalità di Mikša, apprendista artigiano, si esercita con la stessa apatia sugli animali e sulle presunte traditrici della causa rivoluzionaria, si passa ai fondali di una squallida Dublino, terra d’origine dell’i- dealista Gould Verschoyle, il cui corpo nudo e ghiacciato finirà esposto nel ’45 in un lager kazako «come ammonizione per coloro che sognavano l’impossibile». In questo iter dell’orrore, la guida più ferma è la scrittura di Kiš: il suo stile «estremamente denso, e dunque altamente allusivo», come ha detto Brodskij, rende l’arte, nella sua funzione di testimonianza, «ancora più devastante delle statistiche».
Danilo Kiš – Giardino, cenere
Profumo di vaniglia e semi di papavero, un vassoio nichelato con sottili mezzelune lasciate dal fondo dei bicchieri, piccoli tram azzurri, gialli e verdi che si rincorrono tintinnando, il cancello di un parco dietro il quale spuntano cervi e cerve, «come ragazzini di buona famiglia di ritorno dalla lezione di piano». All’inizio di questo romanzo c’è un pullulare di sensazioni, una nube tattile, olfattiva, onirica, che si sposta in una cauta esplorazione del mondo, come l’occhio del bambino Andreas, il narratore. La parola «morte» trafigge questa nube, è un numero fatale stampato sul buio. E il bambino gioca con il sonno, gli tende agguati, in preparazione alla grande lotta con la morte. Aveva deciso di «assistere un giorno consapevolmente alla venuta della morte e così vincerla», e nell’attesa voleva sorprendere l’angelo del sonno.
Intorno ad Andreas, vediamo la sorella Anna, che piange la sera perché il giorno è finito e non torna più; e la madre Marija, seduta davanti a una imponente macchina da cucire Singer di ghisa nera. E soprattutto vediamo, seppure soltanto in apparizioni imprevedibili e balzane, il padre Eduard Sam, ispettore delle ferrovie a riposo, ma in realtà trickster decaduto, che non dispone più di molti poteri, eppure è ancora aureolato di eventi prodigiosi e irrisori. Autore di un Orario delle comunicazioni tranviarie, navali, ferroviarie e aeree che, arricchendosi di edizione in edizione, si trasforma in opera interminabile, come una mappa che volesse coincidere con il territorio rappresentato, Eduard usa mostrarsi con bombetta e redingote imbrattata, e sfida l’iniquità del mondo dietro occhiali con montatura metallica, stringendo in pugno un bastone. Compreso della sua vocazione di mistificatore, non è mai se stesso, ma il nebbioso ricordo di qualcos’altro, e il giovane Andreas, fantasticatore selvaggio, percepisce in lui la compresenza di molte vite: «Ed eccolo, mio padre, seduto nel carro accanto a una giovane zingara dalle poppe rigonfie, maestoso come il principe di Galles o, se volete, come un croupier o come un maître d’hôtel (come un illusionista, come un impresario di circo, come un domatore di leoni, come una spia, come un antropologo, come un maggiordomo, come un contrabbandiere, come un missionario quacchero, come un sovrano che viaggi in incognito, come un ispettore scolastico, come un medico di campagna e, infine, come un commesso viaggiatore, rappresentante di una compagnia occidentale per la vendita dei rasoi di sicurezza)». Un giorno, in un raro momento di sobrietà, Eduard accenna al figlio il suo segreto: «Non è possibile, giovanotto mio, e questo ricordatelo per sempre, non è possibile recitare la parte della vittima per tutta la vita senza diventarlo alla fine davvero». La storia si incaricherà presto di avverare la profezia.
In una continua osmosi di sensazione e visione, questo romanzo raggiunge una precisione evocativa che penetra nelle fibre della mente, in un modo che ricorda Bruno Schulz. Qui, come una splendida carovana di stracci e paccottiglia, ci sfila davanti il mondo saturo di esperienze dell’Europa centrale mentre sta per abbandonarsi alla morte, visto con gli occhi del bambino sognatore e ribelle che alla morte voleva dare scacco.
Danilo Kiš – Enciclopedia dei morti
L’Enciclopedia dei morti di cui si parla nel racconto che dà il titolo a questo libro è un’opera in migliaia di volumi dove sono ammesse soltanto le voci riguardanti persone che non compaiono in alcun’altra enciclopedia. Vale a dire la massa sterminata degli ignoti, che qui si ritrovano raccontati in un «incredibile amalgama di concisione enciclopedica e di eloquenza biblica». Opera fantastica, ma che ha un sinistro corrispettivo nella realtà: vicino a Salt Lake City, in gallerie scavate dentro la roccia, sono conservate dai mormoni le schede di più di diciotto miliardi di persone. Questo rapporto trasversale, e quasi di esaltazione reciproca, tra il fantastico e la cronaca si ritrova anche in altri racconti di questo libro – e può riguardare, all’occasione, la storia dei funerali di una prostituta o quella dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende dello gnostico Simone o quella dei Sette Dormienti di Efeso, o le vicissitudini dell’infelice Kurt Gerstein, infiltrato fra gli sterminatori nazisti, come se Kiš fosse perennemente ispirato da «quel bisogno barocco dell’intelligenza che la spinge a colmare i vuoti» (Cortazar). Secondo le parole dell’autore, «tutti i racconti di questo libro nascono, in misura maggiore o minore, sotto il segno di un tema che chiamerei metafisico; a partire dall’epoca di Gilgamesh, la questione della morte è uno dei temi ossessivi della letteratura. Se la parola divano non richiedesse colori più luminosi e toni più sereni, questa raccolta potrebbe avere il sottotitolo di Divano occidentale-orientale, con un chiaro riferimento ironico e parodistico».