György Lukács (1885-1971) resta a cento anni dalla nascita uno dei pensatori più importanti e discussi del Novecento. Oggi molti privilegiano i geniali scritti giovanili che fino alla Teoria del romanzo (1920) incarnano esemplarmente una ricerca estetica che si innesta sulla reviviscenza dell’anticapitalismo romantico nei primi decenni del secolo. Altri preferirà la lucida costruzione della teoria rivoluzionaria in Storia e coscienza di classe (1923). Minor risonanza trova forse la fase del pensiero lukácsiano che è pure stata la più lunga, operosa e a suo tempo efficace: quella del Lukács maturo, teorico di un marxismo che accetta l’eredità culturale borghese e la politica del fronte popolare, vicino al comunismo ufficiale del periodo staliniano anche se spesso in conflitto con esso. E di questo Lukács che Cesare Cases si fece il portavoce in Italia negli anni ’50, dopo essersi brevemente entusiasmato per il radicalismo di Storia e coscienza di classe. Gli pareva che la sua fondazione teorica del realismo potesse servire meglio del marxismo nostrano a ispirare la critica letteraria comunista. Ma la crisi dei partiti comunisti gli apri gli occhi anche sui limiti del pensiero del maestro e della sua versione del marxismo. Questa scelta dei suoi scritti su Lukács nell’arco di tre decenni e della sua corrispondenza con lui fornisce quindi un mosso ritratto umano e ideologico del pensatore ungherese attraverso la parabola di un suo ammiratore.
Cesare Cases – Su Lukács. Vicende di un’interpretazione
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