Joseph Roth – L’avventuriera di Montecarlo

L'avventuriera di Montecarlo

Il cinema è non solo presenza ricorrente nella narrativa di Roth, ma anche oggetto di splendidi feuilleton e recensioni – nell’insieme un centinaio di interventi, compresi per lo più fra il 1919 e l’inizio degli anni Trenta, di cui si offre qui una ampia e rappresentativa scelta. Appassionato di Buster Keaton, capace di liquidare il sentimentalismo di un’epoca intera, cultore di documentari e film etnologici, Roth sa essere sferzante come pochi e non risparmia perfidi strali a osannati registi, si chiamino Lang o Ejženstejn – né, ovviamente, ai più turgidi colossal: come “Messalina”, contraddistinto da «una noia colossale», sicché, egli confessa, «abbiamo il nostro bel daffare a tenerci svegli. Ci sentiamo stanchi come dopo una festa di matrimonio o un banchetto funebre durati giorni e giorni». Quando visita i set, poi, è un grandioso, rutilante bestiario che si offre al suo sguardo implacabile: registi onnipotenti, operatori pedanti, comici presenzialisti, ricchi produttori, dive irresistibili e tiranniche che si scelgono ruoli cuciti sul loro corpo: senza che di quel corpo «il povero sceneggiatore abbia potuto cogliere anche un solo barlume». Ma quel che più conta è forse l’attenzione, acutissima e preveggente, rivolta sin dai primi testi alla capacità del cinema di creare simulacri: i meravigliosi prodigi dello schermo significano per Roth che la realtà, così ingannevolmente imitata, non era poi tanto difficile da imitare: «Sì, le persone reali, le persone vive, erano già diventate così evanescenti che le ombre sullo schermo dovevano per forza sembrare reali».

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