«È un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi». Il viaggio cui allude William Burroughs nel “Biglietto che esplose”, pannello finale della sua celebre tetralogia, non è solo quello interstellare del metamorfico protagonista Bradly. È anche il viaggio conclusivo di una specie – la nostra – giunta a una sorta di resa dei conti. Stretto tra invasioni venusiane volte a schiavizzarlo e una polizia segreta che vuole sottoporlo a un controllo onnipervasivo, il Sapiens si destruttura e trasforma definitivamente in un’intercapedine organico-tecnologica, con ragazze-orchidea e ragazzi-raganella fluorescenti – veicoli di agenti virali e droghe alienanti –, registratori e telescriventi che manipolano istinti e linguaggi. Unico elemento di resistenza sono gruppi clandestini come i partigiani diretti da Saturno. Intorno, uno scenario putrido e fantastico insieme: «città dalle consunte strade marmoree» sormontate da cupole di rame, immani terre verdi in cui ogni filo d’erba luccica «come incastonato nel cristallo», stagni e canali artificiali che riflettono «galleggianti ornati di fiori», il tutto avvolto e tiranneggiato da un «buio pesto da pellicola sottoesposta». Portando alle estreme conseguenze il suo radicale pessimismo, Burroughs non vede vie di fuga possibili: irreversibilmente corrotto, il genere umano sembra vittima del proprio «corpo» e della propria «parola», carceri che lo imprigionano e lo condannano a un meccanicismo cieco e insensato. La sola, paradossale apertura – sarebbe parodistico chiamarla speranza – consiste nella «liberazione» di cui lo scrittore stesso è interprete insieme letterale e metaforico: nel rifiuto di un linguaggio normativo e omologante; nell’esaltazione dell’anarchia e dell’invenzione letteraria contro l’opacità mortuaria dei gerghi mediatici e della «non-lingua» del Potere.