“Cazzo, che bel bersaglio! Provo a passare da dietro e li faccio fuori”. Non è un cecchino a parlare dal tetto di un edificio, ma qualcuno di comodamente seduto alla base militare di Creech, in Nevada. Sta pilotando un drone che si appresta a lanciare un missile Hellfire su un gruppo di persone sospette in Afghanistan. Con i droni, tra il grilletto sul quale si poggia il dito e la canna da cui uscirà il proiettile ci sono migliaia di chilometri. Una distanza che rimette in discussione l’idea stessa di conflitto militare: che cos’è infatti un combattente che non combatte? Si può ancora parlare di guerra quando il rischio non è simmetrico? Quando interi gruppi umani sono ridotti allo stato di potenziale bersaglio? Nella guerra a distanza, poco importa che siano delle macchine a uccidere esseri umani, l’importante è che lo facciano in modo umano. Eppure dietro questa meraviglia della tecnologia militare non poche sono le questioni etiche, psicologiche e giuridiche che vi si celano. Attraverso il paradigma del drone, Grégoire Chamayou, ricercatore del CNRS francese e affermato esponente del pensiero critico d’oltralpe, coglie l’occasione per portare avanti un’analisi esaustiva delle trasformazioni della sovranità e delle sue forme di punitività.