La rosa è l’ultima pubblicazione voluta da Robert Walser nel 1925, prima di entrare nel lungo silenzio degli anni nella clinica per malattie mentali. Di questo libro disse egli stesso all’amica Resy Breitbach: «La rosa è uno dei miei libri migliori, dovrebbero prenderlo in mano solo anziane e nobili signore, perché in questo libro molto c’è da capire e molto da perdonare. È il più maleducato, il più giovanile dei miei libri». Con la sua impeccabile ironia Walser sembra accennare al fatto che La rosa si avvicina alla terra di nessuno della follia, pur mantenendo ancora quella superficie giocosa che in lui è sempre allarmante. Non solo: Walser ci fa intendere che questo è anche un libro di camuffate confessioni, riconoscibili in una sequenza di incantevoli autoritratti. Qui la «prosa breve», elemento costitutivo dell’opera di Walser, tende a contrarsi, come se una forza lo spingesse a ridursi a crampo o ad arabesco, mentre la dissociazione avanza, imponendole un fremito sottocutaneo. «La singolarità si assottiglia ogni giorno sempre di più. Sembra che ci sia una fabbrica al lavoro per la normalizzazione dell’insolito» leggiamo in queste pagine. Walser fu il sabotatore celeste di quella fabbrica.