Con la «singolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall’altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all’apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell’arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l’ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l’unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l’operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, così da sovrapporre l’una all’altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un fremito di gratitudine rivolto a chi di dovere – al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».