Hermann, un russo di ascendenze tedesche che vive a Berlino, durante un viaggio d’affari a Praga si imbatte in un vagabondo la cui fisionomia gli sembra identica alla sua. Irrequieto, insoddisfatto – e convinto della propria assoluta superiorità intellettuale –, Hermann concepisce un piano criminale: stipulata una ingente assicurazione sulla vita, induce il barbone a uno scambio di abiti, dopodiché lo uccide. In attesa di incassare l’assicurazione con l’aiuto della moglie, rimane nascosto in un villaggio dei Pirenei, dove tuttavia si rende conto che il suo piano perfetto è miseramente fallito. Si è lasciato dietro, infatti, un indizio destinato a svelare l’identità del morto – le cui fattezze del resto non ingannano la polizia, già sulle sue tracce. Non resta che aspettare la cattura imminente, e ripercorrere gli eventi in un memoriale dove si incanala l’ultima evidenza – questa sì, persuasiva – di una presunta eccezionalità. Un classico racconto poliziesco, si direbbe, che si intreccia con una beffarda storia di doppi, il tutto germogliato all’ombra frondosa di Dostoevskij. Ma non è così. Dostoevskij è solo il punto di partenza da cui Nabokov deliberatamente avvia il gioco che rende inconfondibile la sua arte – un gioco oscillante tra fallace percezione di sé e parodia di tale autorappresentazione. Il criminale ignora ciò che l’artista conosce bene: il divario tra il desiderio e la frustrante realtà. Solo l’opera d’arte, che sopprime ogni barriera spalancando altri luoghi, altri tempi, altre psicologie, consente di sfuggire a un mondo imperfetto.