Con una camicia da bambino, le tempie candide e i pantaloni rappezzati, Ivan Grigor’evic sta seduto nell’angolo di uno scompartimento in un treno che sferraglia verso Mosca. Torna alla città dopo trent’anni di deportazione in Siberia. Avrebbe potuto rimanervi per sempre, e ogni ricordo della sua esistenza si sarebbe subito perso. Ma qualcosa è successo: «senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin», Stalin è morto. Un’immensa macchina di produzione e persecuzione per un momento si blocca. Poi, fra le innumerevoli conseguenze di quel momento, un giorno anche l’oscuro Ivan Grigor’evic si troverà su quel treno. Vasilij Grossman scrisse fra il 1955 e il 1963 questo libro, che è il suo testamento. Come nel grandioso Vita e destino, non cambiò molto nel suo stile scabro e aspro, che lo aveva reso celebre fra gli scrittori del realismo socialista. Ma vi infuse l’inconfondibile tono della verità. Con lucidità e fermezza, prima di ogni altro parlò qui di argomenti intoccabili: la perenne tortura della vita nei campi, ma anche l’altra tortura, più sottile, di chi ne ritorna e riconosce la bassezza e il terrore negli occhi imbarazzati di parenti e conoscenti; lo sterminio sistematico dei kulaki; la delazione come fondamento della società; il vero ruolo di Lenin e del suo «spregio della libertà» nella costruzione del mondo sovietico. Su tutto questo Ivan Grigor’evic riflette, mentre vaga alla ricerca di un modesto lavoro e si adatta a una nuova vita di servitù, talvolta ripensando a un generale dell’artiglieria zarista, suo compagno nei campi, che diceva: «Non lascerò il lager per nessun altro posto: qui sto al caldo, conosco la gente: del pacco che riceve, chi mi darà un pezzo di zucchero, chi una focaccetta». Ivan Grigor’evic è un uomo senza opere e senza discepoli, totalmente solo. Ma c’è in lui una forza rocciosa, immutabile, che gli permette di nominare ciò che ha vissuto. Per lui, il panta rei eracliteo si traduce nell’immagine di un convoglio diretto verso i lager della Siberia orientale, con la sua vita sordida e disperata che si protrae per sessanta giorni. «Sì, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio». Così Grossman scrisse questo libro come una «lettera gettata dall’oscurità del carro merci nell’oscurità dell’immensa cassetta postale della steppa».