Fino al febbraio del 1934 lo Stato corporativo fascista fu paradossalmente uno Stato senza corporazioni, perché solo allora queste furono create, e in forma del tutto subordinata all’amministrazione statale e al potere politico della dittatura. Nonostante le tesi di certo fascismo «di sinistra» – si pensi a Ugo Spirito – le corporazioni non furono mai altro che nuovi organismi burocratici aggiunti agli altri, ligi strumenti di una politica economica che copriva le sue scelte con la demagogia. L’interesse che, in un mondo scosso dalla crisi, destò il corporativismo fascista durò perlopiù solo il tempo di accorgersi del carattere di espediente politico della «nuova esperienza economica» italiana, e anche così può sembrare oggi spropositato. In effetti, bastarono pochi anni per passare dall’interesse per gli aspetti dottrinali e pratici del corporativismo alla preoccupazione ben più impellente per il potenziale reale o presunto dell’economia dell’Italia fascista.
Questo percorso è esemplarmente illustrato dai numerosi e approfonditi studi che dal 1934 al 1939 dedicò alla realtà economica e sociale italiana Louis Franck. Per lui il corporativismo fu dal 1930 al 1934 una serie di reazioni difensive alla crisi economica, poi lo strumento di una volontà di potenza che si traduceva nell’autarchia e nell’economia di guerra. La diagnosi, che attribuisce fra l’altro grande importanza allo sviluppo di una nuova classe media di funzionari variamente legata al regime, ritrova l’ispirazione dei grandi esponenti dell’emigrazione antifascista – da Gaetano Salvemini a Carlo Rosselli ad Angelo Tasca – i quali, come ricorda l’autore in una esauriente testimonianza inedita, lo guidarono nei primi passi della sua ricerca