Per Goffredo Parise, la Cina è un poema composto da “molti, quasi infiniti versi”. Quando ci si prova a leggerli, questi versi, si fa un po’ di fatica, anche perché, a prima vista, sembrano tutti simili e si può essere presi dalla noia. Ma, se al posto della “chiara, limpida, matematica e apparentemente esatta ragione” ci si affida a “due strumenti apparentementi ambigui e oscuri come la discrezione e l’intuito”, ecco che la noia scompare e si scopre che i cinesi sono un popolo che possiede naturalmente quella qualità che si può conquistare, e con grande spreco di energie, soltanto storicamente. Questa qualità è lo stile”. In Cara Cina, primo dei suoi libri di viaggio, Parise ausculta lo stile dei cinesi, non solo nei suoi aspetti più espliciti, come la pratica della calligrafia e quella della cucina, ma soprattutto in molti dettagli acciuffati con la forza di un intuito sempre vivo. Parise è un viaggiatore che ha scelto di essere indigente: nel suo bagaglio ci sono esclusivamente “gli occhi per vedere, il cervello per riflettere, il caso e infine la propria persona, con quanto possibile di lampante e di oscuro”. Da Canton a Hong Kong, fermandosi a Pechino e a Shangai, più che sui luoghi fisici, il reporter si sofferma sulle persone. Ne ricava molti dialoghi che costituiscono lo scheletro di questo libro magro. Sono davvero memorabili sia l’incontro in un ospedale tradizionale con una dottoressa che pratica l’agopuntura da persona più bella che mi sia capitato di vedere da quando sono in Cina”), sia la visita a una scuola, nel corso della quale sperimenta la consistenza corporea dei fanatismo, impersonato dal direttore (“E’ la prima volta nella mia vita che vedo il fanatismo politico: è ripugnante e pietoso al tempo stesso, ma fa paura”). in entrambi e opposti casi, la flessibilità e la leggerezza degli strumenti conoscitivi di Parise rendono possibile la difficile arte della conoscenza.