Lo schiaffo che Zeno Cosini riceve dal padre moribondo – forse l’addio familiare più traumatizzante che scrittore abbia mai inventato – è anche, inevitabilmente, il segno della frattura decisiva da cui prende corpo il Novecento letterario. Secondo Walter Pedullà, che lungo quella frattura si muove con grande agilità critica riuscendo a ritrovarne sostanziose tracce in autori fra loro diversissimi, il nostro secolo prende coscienza espressiva di se stesso nel momento in cui registra quel divorzio fra le parole e le cose che Bontempelli ha descritto come relazione tra due piani paralleli e che Debenedetti ha raccontato, sulle orme del Tristano e Isotta di Wagner, come vana aspirazione degli amanti all’identità. Il Novecento si trova in tal modo a dover perennemente fare i conti con un’insanabile «duplicità», con la vera e propria tragedia vissuta sulla pagina da chi vede sempre più allontanarsi letteratura e vita, e si dedica allora all’impresa – talvolta titanica, talvolta rassegnata, talvolta autoironica — di trasformare radicalmente il linguaggio, nella speranza che le parole «nuove» possano miracolosamente riconquistare un rapporto diretto con una realtà sempre più difficile da «nominare». Gadda e Landolfi, Savinio e Pizzuto, Alvaro e Vittorini, ma anche Sciascia, e persino Saba, nell’indagine stringente e accerchiante di Pedullà, sono sorpresi a scoprire il bordo oscuro della loro scrittura, a rivelare senza più alibi il dramma del loro corteggiamento dell’impossibile, a divenire insomma i protagonisti di un viaggio all’interno della creatività letteraria novecentesca la cui stella polare è per Pedullà la riflessione critica di Giacomo Debenedetti, qui oggetto di un lungo e meditato saggio. L’itinerario è di grande fascino, e Pedullà lo individua e descrive mediante una scrittura critica che tutto coinvolge in un mobilissimo e vincente gioco metaforico.
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