«M’è venuta l’idea di andare a trovare René Char. Giusto per uscire un poco dai centri urbani, profittando delle corriere. Allora, direzione Valchiusa – ti ricordi: “E cantavamo la Varsovienne. Con labbra coperte di giunco. Petrarca”? Era, rivolta alla Siberia degli Esiliati, alla Poesia, Esilio e Terra della Fierezza dell’uomo, la nostra tenace ragione d’essere – e lo è sempre. Allora niente Fontana turistica, niente Capolinea-Poeta, niente Trattoria da Laura».
Così il 26 ottobre 1965 Paul Celan, disperatamente in viaggio per la Provenza, cercava sotto il segno di Mandel’stam di ristabilire un contatto con la moglie Gisèle. Di lì a un mese avrebbe tentato di accoltellarla. Recluso in manicomio, verrà trasferito verso metà febbraio del ’66 alla clinica psichiatrica della Sorbona. Da qui, per due mesi Celan non smette di scrivere: trentacinque poesie che consegna via via a Gisèle, dedicandogliene metà. Così, uscito dalla clinica, si ritrova con un piccolo canzoniere, pubblicato integralmente solo in anni recenti in Germania e ora, per la prima volta, in Italia.
Un canzoniere ribaltato e deformato. Se in quello di Petrarca la donna era in cielo e l’uomo in terra, in quello di Celan la donna è in terra e l’uomo in ceppi: oscurato. Ma non è oscurata la poesia di Celan (oltretutto qui nemmeno oscura). Questi versi costituiscono una delle sue più belle raccolte, lirica e tragica allo stesso tempo, mortuaria e vitalissima.
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