Roma, fine impero occidentale.
I barbari sono ormai alle porte ma alla corte imperiale il reggente, Romolo Augustolo, è dedito a ben altre faccende. Deve occuparsi delle sue amate galline, tutte rinominate coi nomi dei suoi llustri predecessori. Non ha tempo per una quisquilia come è il dirigere un Impero.
Intorno a lui si muove una sarabanda di personaggi improbabili, dal messo trafelato che si rifiuta ostinatamente di dormire perché Roma sta per bruciare, dalla moglie dell’imperatore, unico personaggio apparentemente sensato, che cerca di richiamare l’augusto consorte ai suo doveri, alla figlia, ignara di tutto e presa dalle sue lezioni di recitazione, fino al collega imperatore di Bisanzio, portatore in malavoglia di una anacronistica quanto comica etichetta orientale.
Una ridda di personaggi in crisi che gravitano intorno al protagonista, cercando da lui consiglio, responsabilità e salvezza, mentre egli, serafico, insiste nella sua abulia. E nemmeno l’uomo più ricco di Roma, il fabbricante di calzoni Cesare (sic) Rupf, con la promessa di fermare Odoacre in cambio della mano della principessa, riuscirà a smuovere l’Imperatore dalla sua inerzia.
Nella tragicomica notte precedente alla presa di Roma ecco che tutti i personaggi si decidono alla prova estrema: l’ultimo imperatore farà la fine del primo dittatore, per la salvezza della Patria. I pugnali si preparano… ma qui viene svelato l’arcano, nello stupore generale. L’apparente disinteresse di Romolo per il suo regno era frutto di una precisa scelta politica: Roma fu costruita nel sangue e nel sangue di innocenti continuava a prosperare. Meglio allora che crolli, questo impero basato sulla razzìa e sull’ingiustizia. Meglio aprire le porte di casa ai barbari piuttosto che seguitare a essere come loro, peggio di loro.
Ma l’ideologia di Romolo, anche se ben pensata, si rivelerà vana davanti al realismo del suo omologo Odoacre. Sono gli uomini a crescere il Potere di cui sono poi loro stessi a subire le conseguenze nefaste. Che Roma crolli o meno, la strada dell’umanità sarà comunque scritta in versi tragici, e non per le inclinazioni individuali dei singoli governanti ma per la fatalità della storia.
Ed è questo il messaggio finale che ci lascia il pessimismo durrenmattiano. I due sovrani, lo sconfitto e il vincitore, restano in quasi fraterna commozione l’uno davanti all’altro, entrambi nudi di fronte al Potere e alla violenza della Storia, un palcoscenico che non smetterà di sanguinare insensatamente, indifferente al fatto che a calcare la scena è un despota iluminato e raffinato o un conquistatore barbaro, un romano agiato o un furente germano.
Natjus