Quando si riaprono certi paesi ‘mitici’, dopo decenni di stragi ideologiche, forse non sarà più permesso fare ancora i decadentismi naïfs o i maoismi all’italiana. L’approccio – finalmente – ai leggendari templi e ai favolosi monumenti spesso si svolgerà camminando letteralmente sui teschi delle infinite vittime delle ideologie e delle utopie. E solo qualche vecchio fatuo e sciocco potrebbe fare ancora dell’estetismo gregario o dell’engagement subalterno fra le tragedie e sulle macerie.
Ora, dopo la Cambogia (subito raccontata in “Mekong”), anche la Birmania ha riaperto destinazioni avventurose e a lungo inaccessibili: Rangoon, Mandalay, i santuari dorati, i mille templi di Pagan. E l’Iran socchiude spiragli contraddittori sui suoi luoghi fantastici: Persepolis, Isfahan, Shiraz… Ma intanto anche l’America Centrale, tradizionale e instancabile produttrice di insurrezioni e guerriglie grandi e piccole, continua a presentare le sue eccitanti rivoluzioni, sempre così suggestive: una vecchia finisce in Guatemala, una nuova è alla moda in Chiapas. Mentre i segnali di pericolo turistico si sviluppano magari nelle destinazioni storiche di successo: Sanaa, Palmira, Petra.
E perché non un giro tra i draghi Fafner assopiti in Sicilia o in Argentina, dopo tutto? Assolutamente non un’ennesima indagine sociopolitica o moralistica sui noti mali e guai della sventurata isola, bensì un rinnovo dei viaggi culturali compiuti da Bernard Berenson un secolo fa. E una rivisitazione della Buenos Aires postmoderna, cioè dopo Borges.
I testi di viaggio qui raccolti traggono origine da reportages apparsi su «la Repubblica».