A guardarla troppo da lontano, l’affermazione del liberalismo negli ultimi tre secoli di storia dell’Occidente può sembrare trionfale e quasi scontata: una specie di fatalità storica come quella che Tocqueville leggeva nella diffusione dell’uguaglianza delle condizioni. In realtà, se il liberalismo si è imposto alla mente degli uomini e alle istituzioni del nostro tempo, non è perché non abbia avuto nemici. Per emergere, ha dovuto, e deve tuttora, misurarsi con tutta una corrente di pensiero antiliberale che costituisce una tradizione variegata, ma unitaria e compatta. «I grandi movimenti», diceva Mill, «conoscono inevitabilmente tre stadi: il ridicolo, il dibattito, l’accoglimento». Quando il liberalismo ebbe percorso questa traiettoria che l’ha portato a diventare un segno distintivo della modernità, i suoi avversari hanno dovuto attenuare i toni, cercare giustificazioni più civili e, alla fine, accettare compromessi: in una parola, come dice Holmes, diventare «concilianti». Le sfide spavalde di un tempo, così, si sono fatte gradualmente più sfuggenti e perfino subdole, dando vita a una sorta di nicodemismo politico. È cominciato allora il gioco degli scavalcamenti e degli inveramenti, ossia la ricerca di realizzazioni «più compiute» miranti a vestire istanze conservatrici di panni più presentabili. Ovviamente in nome del liberalismo.
Ed è storia di oggi. Anche da noi.
Con Anatomia dell’antiliberalismo, Stephen Holmes svolge un’analisi critica stringente e lucida dei motivi conduttori della tradizione antiliberale. Il risultato è un quadro estremamente articolato in cui la dovizia dell’apparato documentario ha il proprio lievito nella passione politica e in una vena di disinvolta ironia.