Il 21 agosto del 1940 alle sette e venticinque pomeridiane, in un ospedale di Città del Messico, moriva Lev Davidovic Trotzkj. Erano trascorse ventisei ore dall’attentato. Ma già dalla sera precedente il silenzio avvolgeva « l’eroico tribuno dell’insurrezione di ottobre, l’indefesso e ardente predicatore della Rivoluzione ». Con la sua scomparsa si chiudeva un grande capitolo della democrazia proletaria, mentre in Europa era appena avviato l’altro della seconda guerra mondiale. Sembrava che la storia avesse volto le spalle a Trotzkj e definitivamente. Protagonista e attore comprimario nel primo atto, lo aveva poi relegato in quest’ultimo al ruolo di spettatore impotente. Altri attori recitavano la loro parte nel grande teatro della storia: Hitler, sconfitta la Francia, elaborava piani per l’invasione dell’Inghilterra; Stalin, dopo essersi spartito l’anno prima la Polonia con il dittatore tedesco, aveva susseguentemente occupato la Carelia nel marzo, la Bessarabia e la Bucovina nel giugno e nello stesso mese di agosto si annetteva i paesi baltici della Lettonia, Estonia e Lituania. Aveva allargato i confini della Russia ad occidente, profittando della situazione che metteva contro i vecchi imperialismi democratici e il risorgente imperialismo tedesco. La politica del burocrate del Cremlino aveva evitato nel giro di un anno l’isolamento dell’Unione Sovietica e creato una larga fascia di sicurezza: la rivoluzione non seguiva la via maestra della lotta di classe, ma avanzava per conquista. Non si era ancora avverata la previsione fatta nel 1933 dal « profeta esiliato » per cui « la vittoria del fascismo in Germania determinerebbe inevitabilmente una guerra contro l’URSS ». Ora il « profeta » era morto. Disperso e diviso il trotzkismo. Rimaneva lo storico della Rivoluzione, ma la piccozza dell’assassino aveva impedito che portasse a termine l’ultima sua opera dedicata al grande antagonista vittorioso: Stalin.