«Il poeta, o vulgo sciocco, un pitocco non è già»: ma Enderby, lo scrittore protagonista di questo romanzo, del pitocco, almeno a prima vista, ha tutta Paria: sporco, sventato, grasso, vive in una casa che è la metafora d’una pattumiera: spazzole, sottaceti, trucioli di matita e pesche in scatola, libri sparsi (Bionde come proiettili, L’affare di Raffity, Piccole storie dei Martiri Mariani), fotografie pornografiche, un bric-à-brac di elefantini d’ebano, sdolcinati pastori di porcellana, stampe di ammiragli britannici del diciottesimo secolo. Ma l’angolo che meglio rivela la sua personalità è il bagno: è lì che il poeta compone i suoi versi, accanto ad una vasca piena di manoscritti, dizionari, penne a sfera inaridite. Seduto ad una scrivania, riscaldato da una stufetta elettrica, accudisce ai suoi bisogni culturali e corporei. Il progetto letterario che gli preme è un poema, La dolce bestia, nel quale sono fusi due miti: quello cretese e quello cristiano: «Un toro alato piombava giù dal cielo in un vortice di vento. Hiiii. La regina, sposa del legislatore, veniva violentata. Rimasta incinta, chiamata sgualdrina dal marito, ella si rifugiava in incognito in un piccolo villaggio del regno…»
Grazie. Segnalo un piccolo refuso (errore di scansione) nell’introduzione: ha tutta Paria (l’aria).
Sì, grazie, solito refuso l’
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