Dopo sette anni di navigazione senza meta su sconfinati “deserti d’acqua”, un nuovo naufragio riporta l’Olandese a terra. Perseguitato dalla condanna di un eterno errare per aver sfidato le Potenze, per aver voluto essere “più che uomo” nella sua ribellione al fato, torna fra gli uomini a cercare il riscatto nell’amore di una donna fedele. Ma ben lontano dalla wagneriana esaltazione romantica della passione redentrice è quest’Olandese in cui Strindberg, irrequieto mitizzatore di se stesso, proietta la propria ansia di riscatto. Amaro e disilluso, per sei volte fuggito spergiuro dalle sofferenze dei tradimenti subiti, non è più pronto a “rinnovare questa buffonata dal finale tanto penoso”. Sa che solo un abbaglio può restituirgli “le illusioni e con esse il gusto della vita”. Eppure basta l’apparizione di Lilith per riaccendere in lui la speranza, il desiderio, la “somma follia” dell’amore. In lei, “immagine del Grande Cosmo”, riflesso “del Creatore nella sua creazione”, può trovare l’angelo della salvezza. E invece ripetitiva, senza scampo, eros ricompie la sua opera, non la sublimazione delle contraddizioni umane nell’amore, ma il reciproco annientamento, l’irriducibile lotta fra uomo e donna, presi nel laccio dell’amore-odio, prigionieri dell’inganno di cercare nell’istante che fugge, in quell’“adesso” che “non è che irrealtà”, la compiutezza della felicità. Ancora una volta abbandonato, l’Olandese riparte, “desioso del mare”; ma è nel ricordo che lo strazio vissuto acquista significato, nella nuova consapevolezza che è nel dolore stesso la via dell’espiazione.