Come un Roth o uno Schnitzler allo stato incandescente: così ci appare oggi, fin dalle prime pagine, questo superbo romanzo. Ma anche, si potrebbe aggiungere, come una sequenza di scene viste attraverso l’obiettivo di Max Ophüls. Quanto all’autore, Sándor Márai fu uno di quei grandi a cui accadde, per un certo tratto della loro vita, di essere famosi e che i cataclismi politici finirono poi per relegare ai margini. Questo libro riaffiora dunque dall’oblio – con il gesto imperioso di qualcosa che non si potrà più dimenticare.
Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili (una di quelle amicizie maschili non meno intense del rapporto fra due gemelli monozigoti), tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava, per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: «una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione». Tutto converge verso un «duello senza spade» – e ben più crudele. Tra loro, nell’ombra, il fantasma di una donna. E il lettore sente la tensione salire, riga dopo riga, fino all’insostenibile, mentre scorre una prosa incalzante, nitida, senza scampo.