Ricordi che gettano sugli anni della giovinezza una luce di malinconica vanità o di inquietante presagio; fuggevoli incontri che rimangono impressi «come un che di struggente e d’improbabile: di lunare»; corteggiamenti che altro non sono se non convulsioni d’infelicità e solitudine, matrimoni ridotti a «secchi schianti di disprezzo» e l’intollerabile vuoto lasciato dal disamore; fantasie che prendono improvvisamente corpo diffondendo un odore di morte, inspiegabili visioni notturne di un volto umano librato contro un angolo della stanza e la falla sempre in agguato nel tessuto delle apparenze; esistenze che si trascinano per mera forza di volontà o per assurda scommessa come a un tavolo di chemin de fer e il vano tentativo di contrastare il tempo che «reclama con ansia ed angoscia accadimenti»; l’impossibilità di trovare il chiarimento che cerchiamo e la volontà di morte «quale unica possibile dignità, in fondo a ciascun uomo». Sono i motivi fascinosi e allarmanti che subito ci afferrano allorché leggiamo gli elzeviri landolfiani apparsi sul «Corriere della Sera» fra il 1967 e il 1978, e che avrebbero dovuto comporre – se non fosse sopraggiunta la morte dello scrittore – un volume da affiancare a Un paniere di chiocciole (1968) e Del meno (1978). Beffardi pezzi di prosa, «innocenti raccontini», amari frammenti di memoria ai quali è affidato l’assoluto disincanto di un Landolfi che ormai ritiene occorra «una tal quale dose di follia per raccontare una storia», ma non sa e non può rinunciare all’ultima sua risorsa: la scrittura nella sua chimica, provocatoria purezza.