L’aborto, l’amor di patria e Carosello, le raccomandazioni, le tasse e il caso Tortora: su temi come questi Manganelli è intervenuto, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, usando un’arma che gli era massimamente congeniale – il corsivo fulminante – e sempre mandando gambe all’aria moralismi e cliché. E da quei corsivi sbiechi e solitari emerge un ritratto dell’Italia che oggi più che mai lascia ammirati e scossi. Manganelli demolisce infatti i sacri valori italici: la famiglia, anzitutto, produttrice indefessa di psicopatologie varie, anche criminali; e la Patria, che in effetti è arduo amare in toto, incluse «la periferia nord di Foggia, le latrine di tutti indistintamente i ristoranti e le tavole calde dell’autostrada». Il nostro Paese è in fondo una madre avara e insieme indulgente, che «non dà il dovuto ma si lascia insolentire», garantendo così «una lamentosa e innocua esistenza». Non c’è dunque da stupirsi che gli italiani siano cittadini mediocri, afflitti da un’endemica cattiva coscienza – e «il fatto di non essere in galera è semplicemente un segno che da noi lo Stato non funziona». Osservatore implacabile ma partecipe, Manganelli ci racconta e si racconta, e ogni piega del suo discorso cela una gemma di comicità: come quando invita il presidente Pertini, la cui popolarità minaccia le istituzioni, a farsi assegnare il diritto di imporre «un qualsivoglia numero di rigori ad una qualunque squadra di calcio, anche a partita finita, con un semplice colpo di telefono».