Giorgio Manganelli non fu solo un grande scrittore, ma un impareggiabile chiosatore di quel teatro dai gesti minimi che è l’attività del leggere e dello scrivere. Dopo averci dato, con “La letteratura come menzogna” (1967), una succinta teologia della letteratura, Manganelli andò scrivendo su temi affini, fra il 1966 e il 1990, una serie di articoli che finirono per configurarsi come un libro consequenziale e ramificato. Libro che l’autore non riuscì a pubblicare: ma, per nostra fortuna, rimane traccia fra le carte di Manganelli del progetto di articolazione formale che esso avrebbe dovuto avere. E tale traccia è stata puntualmente seguita. Forse questo libro andrebbe letto come una «lettera a un giovane prosatore» (intendendo per prosatore chi abbia un qualche orecchio per «il rumore sottile della prosa» e al tempo stesso, come ogni vero scrittore, sappia riconoscersi «eroicamente incompetente di letteratura»). Perché tutto il libro può essere considerato come una protratta risposta a un interrogativo «buffo e sconvolgente»: «perché scrivete?». E da quell’interrogativo, come in una proliferazione invincibile, rampollano miriadi di altri interrogativi, fino ad alcuni di suprema e quasi irrespirabile difficoltà – come quel «che cosa dunque ‘non è’ un racconto?» che qui trova una magistrale risposta. Ma non meno magistrale – e si starebbe per dire definitiva, se non fosse per quel lieve sorriso che la parola suscita in questioni di letteratura – la risposta a Primo Levi a proposito di un altro interrogativo, questa volta incresciosamente frequente, su che cosa sia e che cosa significhi lo «scrivere oscuro». Mentre seguiamo Manganelli in questi impervi e ingannevoli percorsi, incessantemente il nostro orecchio si educa al «rumore sottile» di una delle più belle prose italiane dei nostri tempi.