Che Napoli sia un paradiso abitato da diavoli – cioè da uomini «di poco ingegno, maligni, cattivi e pieni di tradimento», come sosteneva il Piovano Arlotto – è un detto che dal Medioevo in poi ha goduto di vasta fortuna ma che è ormai, per comprensibili ragioni, caduto in disuso. E solo un uomo come Croce, in cui la profonda passione per Napoli e le sue memorie non è mai disgiunta da quella politica e civile, poteva arrischiarsi a riesumare e riproporre quell’antico biasimo – un biasimo che è bene considerare «verissimo per far che sia sempre men vero». Come un cicerone dalla sorprendente dottrina, affabile ma mai conciliante, Croce ci fa scoprire il volto segreto o scancellato della sua città: le vestigia della dominazione spagnola e le vite smodate, ora truci ora fastose, dei soldati che vi furono di stanza; gli scomparsi «seggi» e l’epopea dei lazzari, fanaticamente devoti a san Gennaro e al re; il vocio assordante dei venditori e l’incanto della vita negli anni di «feconda preparazione e semplice gaiezza» allorché a Santa Lucia, su lunghi banchi di legno protetti da lembi di vela, si mangiavano i frutti di mare e furoreggiava «Te voglio bene assaie, / e tu non pienze a me!…»; sorprendenti personaggi come don Dima Ciappa, «religiosissimo uomo» che fece uccidere il giovane Carlo Capecelatro, suo rivale in amore; e gemme come il palazzo Cellamare a Chiaia, dove si sedimentano secoli di storia, di vita artistica e letteraria.