Per tutta la sua vita, Schopenhauer fu il filosofo solitario davanti al quale si ergeva il maestoso edificio dell’università tedesca. All’apice di esso sedeva il nemico principe di Schopenhauer: Hegel. Ma dalla sua Schopenhauer sentiva di avere la forza di chi con tenacia ha cercato di «penetrare nella radice delle cose, non tralasciando di perseguirla sino al dato ultimo e reale». Così si lanciò in questo trascinante pamphlet, che si ammira oggi più che mai per la precisione del suo sarcasmo. Di fatto il bersaglio di Schopenhauer, ancora più della Germania dove l’avversario poteva anche chiamarsi Hegel, sembra il mondo di oggi, dove il pensare ama asservirsi volontariamente e «tutto il lavoro della filosofia universitaria ha quest’unico scopo, moltiplicare vertiginosamente la verità affinché non si individui mai qual è la ‘verità’ tra le tante» (Sgalambro). Dietro la furia e l’irrisione schopenhaueriane si intravede una incompatibilità fisiologica: quella fra i molti che si appagano del «nefando concetto di ricerca» e i pochi che hanno «provato su di sé l’ossessionante presenza del pensiero» e bramano la «quiete conoscitiva». Parole di un altro filosofo solitario, Manlio Sgalambro, che ci fa da guida appassionata a questo testo.