In questi ultimi anni Quinzio è intervenuto più volte su temi urgenti del mondo moderno. E ogni volta ha voluto ritrovare in quei grovigli il filo del pensiero e dell’influenza ebraica, nelle visioni politiche come nelle arti, nella letteratura come nell’etica. Se il mondo moderno ha assunto nel tempo una certa fisionomia – e forse è sul punto di perderla –, questo si deve anche alla potenza di un’eredità ebraica che, mischiandosi e spesso opponendosi all’eredità greca, ha dato origine a forme e pensieri di ogni specie, che ne risentono in modo evidente o occulto, anche quando in apparenza la disconoscono. Ogni pensiero utopico, per esempio, prende luce dalla visione messianica. Ma anche la pretesa di leggere i sogni nasce su presupposti ebraici. E, prima di ogni altra, è la nozione stessa di «storia» che, nel senso occidentale, è segnata dall’ebraismo come «tempo a senso unico e senza ritorni». Mentre questa visione della storia, a sua volta, rimanda a una specifica concezione del sacro: «Non gli oggetti dello spazio, statici anche nel tempo, ma ciò che accade nella continua innovazione e imprevedibilità del tempo e non permane fisso nello spazio – l’evento – è per eccellenza sacro nell’ebraismo. Il sacro ebraico è pochissimo legato alle cose: le tavole della Torah, scritte dal dito di Dio, hanno potuto essere subito infrante da Mosè appena disceso dal Sinai. Il sacro ebraico è, per così dire, mobile e fluido come il tempo, non ha la struttura compatta e rigida del sacro comune alle altre grandi tradizioni religiose dell’umanità. Il sacro ebraico non è atemporale, ma s’inserisce in una storia, ha una storia».
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