Musil contro Proust. Non è certo una sfida reale né un duello d’ombre simboliche, piuttosto l’analisi di due proiezioni (cioè di due « effetti » di scrittura, di due immagini della letteratura) sui terreni più aperti del Novecento europeo. Spesso implicitamente, talvolta invece per raffronti ravvicinati o attraverso la mediazione d’altre voci, il gioco incruento di questo confronto prelude a un bilancio, tutto da saldare, dei destini molteplici e delle operazioni conoscitive meno ovvie assegnate ai romanzo, in questa incipiente fin de siècle. Chi ha gridato allo scandalo (al suo solo annuncio) per l’apparente irriverenza di questo match, ha già denunciato così di risiedere nelle dignitose province del buon senso, delle gerarchie consolidate, delle certezze infrangibili, della letteratura pura, da mausoleo. Chi invece se n’è compiaciuto come di una sortita iconoclasta, di vieto sentore ludico, stenta a comprendere che l’ironia è una particolare specie d’amore, non sbaraglia il campo ma cerca solo tracciati diversi, luci attenuate, per dissimulare le stesse passioni che animano gli adoratori d’immagini: solo meno spudorate, meno intransigenti, più circondate da ombre perplesse. L’incontro, in quanto tale, s’è ovviamente risolto con la formula sportiva del «no contest »: ma l’itinerario di questo verdetto racchiude una lezione non neutrale sulle « spettacolari trasformazioni » subite dal romanzo in questo secolo e paragonabili, come sosteneva Albérès, « a quelle delia vita organica nel Terziario e nel Quaternario »
Grazie a Mitzicat per la scansione di partenza.