Goffredo Parise era stato a Vienna subito dopo la guerra e si era imbattuto per caso nel set del terzo uomo, il film di Carol Re ed interpretato da Orson Welles. Sia la città sia il film avevano a lungo soggiornato nella sua immaginazione e s’erano segretamente infiltrati nel suo primo libro come l’emblema della sua “forse inconscia operazione neoromantica”. Ecco che, quando, nel 1969, Parise darà alle stampe Il crematorio di Vienna non potrà non sentirlo come il punto d’arrivo di un percorso che aveva avuto il suo inizio, per l’appunto, con il ragazzo morto e le comete. Dalle macerie materiali del dopoguerra, raccontate con la veloce genialità fiabesca e stralunata di un ragazzo, Parise era giunto alle macerie morali di un mondo sempre meno umano e sempre più meccanizzato. Ecco dunque la scelta di una prosa cospicuamente analitica, bisturi stilistico e conoscitivo capace di affondare nei più segreti anfratti psichici dei rapporti tra i sessi, tema che Parise articolerà e varierà in quegli anni con felice ossessività espressiva. Il crematorio di Vienna non è una semplice raccolta di racconti; è piuttosto un insieme di trentatre prose narrative variamente intonate, tenute insieme da una evidente serialità; una serialità in parte simile ma per molti aspetti opposta a quella che darà vita ai Sillabari. Tra i libri di Parise, è quello che ha avuto una più lunga ed esitante gestazione, precedente, coeva e successiva alla stesura e pubblicazione de Il padrone (1965). E vista la contiguità tematica, sarebbe facile considerare queste prose narrative semplicemente come i dintorni del romanzo, un po’ materiali preparatori, un po’ puntualizzazioni posteriori; sarebbe facile, ma così è soltanto parzialmente. Lo è probabilmente nella prima parte, quella più spiccatamente “aziendale”; lo è meno nella parte finale, dove prevale uno humour nero rabbioso e quasi frernetico e il libro gira come un carosello da incubo.