Da un luogo che somiglia a un Averno beckettiano, a un «inferno tiepido» sospeso fra la vita e la morte, un intervistatore timido, testardo e colpevolmente curioso ci invia dodici colloqui impossibili con altrettanti illustri defunti. Ciascuno di loro, quasi fosse il protagonista di un’anomala, laboriosa seduta psicoanalitica, confida tutte le proprie paure, ossessioni, frustrazioni, manie: conosciamo così il segreto dell’infanzia di Tutankhamon, colpito dal «trauma della regalità» e coperto di «vesti luminose e inadatte al corpo»; la fosca paranoia e la malinconia di un Casanova in fuga da spie, sicari, servette innamorate; la condizione di insostenibile cattività della celeberrima medium Eusapia Paladino – «lei non sa che situazione imbarazzante sia per una medium essere morta»; il delirio di Nostradamus, per il quale «stare sempre nel futuro è oneroso» e l’unica paradossale salvezza è «la luce della fine del mondo», rivelata per squarci e spiragli nelle sue strofe sconnesse, oscure e baluginanti. Ma nel discreto e cocciuto intervistatore si nasconde anche un critico, che riesce a penetrare i segreti delle opere di alcuni degli intervistati: a Dickens strappa decisive dichiarazioni sulla Bottega dell’antiquario, Dombey, David Copperfield e sui nessi profondi tra melodramma, umorismo e tragedia; a Marco Polo la confessione che il Milione è un’invenzione più e prima che una scoperta di mondi; a De Amicis l’ammissione che Franti – «serpente dell’Eden», «coscienza del male e del bene» – lo ha liberato dalla schiavitù di un «sogno nevrotico e morbido». Mai come in questo libro l’arte di Manganelli – per applicare ad essa ciò che lo scrittore dice nell’intervista a Fregoli – ha palesato la propria «mostruosa vocazione mimetica»; ove, beninteso, la si intenda come una «qualità sinistra», tesa ad aumentare l’angosciosità delle interrogazioni sulla nostra vera identità. Le interviste impossibili furono pubblicate all’interno del volume A e B (1975).