Gottfried Benn (l’«imperdonabile Benn», come lo chiamò Cristina Campo) fu poeta e sifilopatologo. Come poeta: uno dei creatori dell’espressionismo e autore di alcune fra le liriche perfette del Novecento. Come medico: continuò a praticare oscuramente, fino all’ultimo, nella Berlino del dopoguerra. Ma Benn fu anche l’autore di alcuni saggi (qui presentati in un’ampia scelta) letteralmente senza pari, per la mobilità nervosa, fosforeggiante dello stile, per il continuo germinare delle immagini, come anche per il taglio imprevedibile degli argomenti. Non si ha idea di che cosa possa essere la prosa moderna (ma che cosa è moderno? «Purtroppo io non ho la minima idea di che cosa sia moderno» scrisse una volta Benn, beffardamente) se non si è lasciata risuonare in noi questa prosa, con i suoi scarti micidiali e repentini, gli accostamenti allucinatori, l’uso sovrano e predatorio di testi preesistenti. Di che cosa parla Benn? Di ere geologiche e di Goethe (qui si leggerà la più bella rivendicazione di Goethe come scienziato), di nichilismo (come esperienza sottintesa di tutto l’Occidente) e di stile («Lo stile è superiore alla verità, porta in sé la prova dell’esistenza»), di teorie scientifiche e del mondo dorico, del cervello e delle tare, di poesia (naturalmente) e di climi storici. In breve: parla di tutto. E nulla lascia intatto di ciò che di accomodante e stantio si perpetua nel pensare. Ma ogni volta il tratto che noteremo per primo è il «sacrilego azzurro» della sua prosa, un colore, un timbro che solo qui riusciremo a trovare e che ci dà una scossa di segreta euforia.
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