Studio di due temperamenti, ma più ancora di due generazioni, di due mondi in conflitto, Padre e Figlio fu pubblicato anonimo nel 1907 e ristampato l’anno dopo col nome dell’autore. Nell’ultima esitazione a mettere la propria firma sotto quest’atto di accusa di un figlio contro il proprio padre e il suo mondo, Gosse dà un’altra prova di quella delicatezza e di quel rispetto con cui tratta, in questa autobiografia della giovinezza, la singolare figura del suo antagonista. Il padre era uno zoologo famoso, aperto all’osservazione dei fenomeni naturali ma inaccessibile, nel suo fanatismo puritano, a ogni forma di affetto spontaneo, di gioia, di vera cultura, grottesco nelle sue prese di posizione contro il darwinismo, patetico nel suo terrore di un Dio astioso e inflessibile. A sua volta inflessibile egli fu nell’educazione del figlio, a cui si dedicò dopo la morte precoce della moglie, quando decise di lasciare il grigiore soffocante della Londra vittoriana per andare a vivere con il bambino nell’isolamento, non meno soffocante, di un villaggio del Devonshire, in mezzo a una colonia di settari, i «Fratelli di Plymouth». Il libro è il resoconto della lenta liberazione del figlio, della sua lunga, ingenua e inesperta obbedienza, dei primi dubbi, delle prime riserve, delle prime malcelate insofferenze, fino allo scatto esasperato col quale confermerà, dopo essersi già allontanato dal padre, la propria definitiva indipendenza, e che gli aprirà finalmente la sua strada: quella strada che, dal mondo ottuso di un puritanesimo morente, lo porterà a una feconda attività letteraria nel vivo di una cultura europea ancora in piena espansione, e all’amicizia di uomini come Swinburne, Stevenson, Henry James, Thomas Hardy. Abituati come siamo al comodo risentimento degli «arrabbiati», queste pagine ci sorprendono e ci consolano per l’oggettiva serenità della dizione, per l’esemplare rispetto verso l’antagonista, per l’equità che cerca giustificazioni piuttosto che condanne. «Un libro che ho letto, riletto e fatto leggere non so quante volte; un libro con cui ho vissuto, che ho sentito scritto per me», così Gide scriveva a Gosse nel 1926. Delicato e pur vivissimo nei particolari che segnano le tappe dell’evoluzione del ragazzo, affascinante nella resa immediata dell’atmosfera e dei personaggi, come pure nell’evocazione di un evangelismo forsennato, è soprattutto in una accettazione di se stesso, ironica e dolente, in una nobiltà che non conosce rancore che il lungo racconto di Gosse trova il proprio incomparabile pregio.
Non riesco ad acquire il file. Come faccio?
L'ho ricaricato, lo trovi a questo link: https://docs.google.com/file/d/0B9MYC3YXZ2Giei1ob21MSF93c1k/edit