Nelle profondità dell’America Latina si celava da decenni «un territorio tenuto gelosamente nella penombra» (Álvaro Mutis), prezioso e sorprendente: l’opera di Gómez Dávila (1913-1994), summa di fulminanti annotazioni in margine a un «testo implicito» che sta al lettore scoprire. Figlio di ricchi possidenti, formatosi da autodidatta nella Parigi degli anni Venti e ritornato poi a Bogotá, Gómez Dávila si ritirò da allora nella solitudine della sua biblioteca, raccogliendovi giorno dopo giorno un impressionante corpus di sentenze, di cui è qui presentata una prima silloge. Queste schegge provviste di una «punta di diamante» incidono in noi, come altrettante evidenze, considerazioni su temi che sono i più grandi e i più quotidiani, i più antichi e i più peculiari dei nostri anni. Ciò che le tiene insieme è, come scrisse una volta Nietzsche, la «lunga logica di una sensibilità filosofica ben definita», che però Dávila si guarda dall’esplicitare troppo, forse per non discordare dal testo smisurato che commenta. Così ha preso forma inclassificabile un’opera che per la sua durezza, per l’intransigenza dei giudizi e la radicalità dei presupposti può ricordare l’inesauribile scepsi di Cioran o il pathos corrusco di Caraco, ma con l’aggiunta di qualcosa di unico: la pacatezza di un saggio insolente, le cui idee sono «un fuoco di luce secca». Da cavalleresco avversario, García Márquez ha ammesso, riferendosi a Gómez Dávila: «Se non fossi comunista, penserei in tutto e per tutto come lui». Gli aforismi di Gómez Dávila sono usciti in più volumi a Bogotá fra il 1977 e il 1992.
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