Obeso, la testa rasata e gli occhi saggi, don Isidro Parodi prepara, lento ed efficiente, il mate: e intanto invita la pittoresca schiera dei suoi clienti a esporgli con chiarezza i misteri che li affliggono e che lui invariabilmente risolverà lasciandoli di stucco. Enigmi labirintici e inestricabili, di fronte ai quali qualsiasi altro investigatore avrebbe l’accortezza di battere in ritirata: come il caso del talismano di giada trafugato dal tempio della Fata del Terribile Risveglio nello Yunnan e approdato a Buenos Aires, dove gli danno la caccia il mago Tai An, la conturbante Madame Hsin e altri non meno improbabili personaggi. Ma a questo punto è forse il caso di precisare un dettaglio piuttosto rilevante: i colloqui hanno luogo nella cella 273 del Penitenziario Nazionale, dove il geniale e imperturbabile detective sta (ingiustamente) scontando ventun anni per omicidio. Come se non bastasse, a raccontarci le sue fantasmagoriche e sedentarie avventure è il dottor Honorio Bustos Domecq, torrenziale poligrafo clamorosamente inesistente. A muoverne la penna è infatti la beffarda, spumeggiante complicità dei sodali Borges e Bioy Casares, fautrice di parecchi e deplorevoli misfatti letterari, di cui – già lo sappiamo – non potremo più fare a meno.